Inaspettatamente come molte cose che accadono in Egitto, il governo ha dato le dimissioni. Il premier Hazem Beblawi e tutti i suoi ministri – dunque compreso anche quello della Difesa, il feldmaresciallo al Sisi – hanno rassegnato il mandato ad Adli Mansur: presidente protempore come a tempo determinato erano Beblawi, i ministri e quasi ogni potere in attesa che nuove elezioni sanino i risultati delle elezioni precedenti.
Non è chiaro perché sia caduto il governo in carica da meno di sei mesi, mai eletto ma voluto dai militari che a luglio avevano fatto cadere la presidenza Morsi dei Fratelli musulmani. C’è chi dice che questo spianerà la strada alla candidatura presidenziale di Abdel Fatah al Sisi. Forse è più probabile che, pressato da una serie di manifestazioni sindacali e scioperi, l’esecutivo abbia ammesso di non avere mezzi né poteri per lenire la crisi economica sempre più pesante.
E’ tutto provvisorio in Egitto, oggi. E da tempo si da’ per scontato che lo sarà fino a quando Sisi Re Taumaturgo, diventerà presidente, assumendo finalmente le sembianze di qualcosa a mezza via tra un faraone e Gamal Nasser. Perché questo accada occorre che le elezioni presidenziali abbiano una data di svolgimento e una candidatura.
Quest’ultima era stata annunciata in prima pagina, come notizia certa, da un giornale kuwaitiano; pochi giorni dopo, ricevendolo a Mosca, Vladimir Putin si era congratulato con Sisi per la candidatura e l’inevitabile vittoria: per gli autocrati è naturale credere che se uno di loro si candida in un’elezione, la vinca. Ed era ovvio pensare che il giorno dopo l’approvazione del referendum sulla nuova costituzione, a gennaio, sarebbe stata annunciata e strombazzata la data del voto presidenziale.
Invece al momento continua a non esserci l’una né l’altro: niente super-candidato, niente elezioni. Dopo essersi fatto promuovere Feldmaresciallo dal presidente a interim scelto da lui stesso; dopo avere accumulato le cariche di: Comandante in capo delle Forze armate; guida del loro braccio politico, il Consiglio Supremo; ministro della Difesa e della Produzione militare. Dopo aver mobilitato mezzo Egitto in favore del colpo di Stato militare da lui orchestrato, finalmente davanti all’ultimo passo di un fulgido cammino bonapartista, al Sisi sembra tentennare.
Essere o non essere il presidente di questo caotico Paese? La propaganda fa già di lui il santo necessario all’Egitto. Ma lui sa che quell’Egitto creato dai suoi, è vero solo in parte. Accanto o sovrapposto ce n’è un altro molto più complesso, in subbuglio da tre anni, dall’inizio di piazza Tahrir. E’ il Paese incapace di arrestare una decadenza in corso da decenni: educazione, sanità, industria, sviluppo scientifico, libero mercato e società civile.
Dietro un nazionalismo becero e la brutalità della repressione contro chiunque dubiti del “sisismo”, c’è un Paese alle soglie del fallimento. Militari, polizia e burocrazia statale, sempre la stessa classe dirigente dai tempi di Nasser, pensano solo a preservare il loro potere: usano per i loro fini la legittima domanda popolare di ordine, dopo tre anni di caos.
L’intervento del 3 luglio, quando Mohamed Morsi fu esautorato e arrestato, aveva le modalità di un golpe militare. Ma milioni e milioni di egiziani lo avevano sostenuto per liberarsi di una fratellanza islamica che mostrava sempre di più la mediocrità del suo personale politico e la tendenza a pensare che l’Islam fosse la soluzione di tutto. Ora la grande coalizione civile-militare che provocò quegli eventi si è frammentata. Sono scomparsi i giovani, molti dei quali di nuovo in galera; sono critici i sindacati; dubitano sempre di più i liberali e i socialisti. Avevano cacciato il dittatore, si erano sollevati contro l’Islam politico e ora vivono in un’assenza di libertà più profonda di quella dei tempi di Mubarak.
Intanto mancano l’energia elettrica e la benzina come nei giorni precedenti la caduta di Morsi; gli scioperi sociali paralizzano servizi essenziali. Anche il referendum costituzionale di gennaio, non è stato esattamente quel plebiscito venduto dalla propaganda: è andato a votare solo il 38% degli egiziani. Per la costituzione dei Fratelli musulmani aveva votato il 35.
Essere o non essere il presidente di questo grande dramma? Alla fine, al Sisi accetterà il “sacrificio”: che senso avrebbe conquistare una montagna di mostrine e medaglie senza avere al petto quelle più importanti? Ma se l’attesa dell’annuncio è così lunga, forse qualche dubbio deve averlo anche lui.
Allego il mio commento sull'Ucraina uscito domenica sula prima pagina del Sole-24 Ore
Ogni volta che una crisi mette a confronto russi e americani, per semplificazione giornalistica si usa dire che è tornata la Guerra fredda. Succede quando non si mettono d’accordo sulla riduzione degli arsenali nucleari, per la Libia, la Siria. L’Ucraina è un problema estremamente più pericoloso degli altri, almeno per l’Europa. Dunque, si da’ ancor più per scontata la Guerra fredda, in un’escalation da Europa anni Sessanta.
Per quanto la notizia contraria sarebbe “sexy”, quell’epoca di confronto fra due superpotenze non può più tornare. Per due ragioni: la Cortina di ferro divideva due mondi interamente contrapposti, ognuno dei quali avrebbe potuto vincere e imporre il suo modello all’altro. Oggi è il sistema di mercato che governa la Russia: oligarchico, opaco, monotematico sull’energia, ma a grandi linee è lo stesso principio capitalista di Washington e Bruxelles.
La seconda ragione è che oggi c’è una sola superpotenza, gli Stati Uniti, per quanto amleticamente riluttanti nell’interpretare questo ruolo. La Russia è a fatica una potenza regionale: solo i nove fusi orari (erano 11 fino al 2010, quando li ridusse Dmitri Medvedev) le permettono di avere interessi in una parte vastissima di mondo. Questo, insieme alle testate nucleari, alla produzione di gas e petrolio, fa credere a Vladimir Putin di avere la stessa autorevolezza di Breznev. Dopo oltre trent’anni di decadenza, nemmeno le imponenti spese militari stabilite per i prossimi anni rendono temibile ciò che resta dell’Armata Rossa.
A dire il vero Putin e la maggioranza del potere moscovita, non sono i soli a sognare la Guerra fredda. Ci sono piccoli ma autorevoli Dottor Stranamore anche al Pentagono, nell’industria militare americana, soprattutto fra senatori e deputati sulla collina del Campidoglio. Il potere a Mosca e le lobbies attorno a quello di Washington, s’impegnano a rendere contrapposte agende internazionali che altrimenti americani e russi non avrebbero così distanti.
Neanche a Mosca sono eccitati all’idea che l’Iran possa sviluppare l’arma nucleare; in Siria sono interessati alla sopravvivenza del regime, non necessariamente a quella di Bashar Assad; sostengono il piano di pace arabo-israeliano di John Kerry; hanno lo stesso interesse – forse un interesse oggi ancora più diretto – nella lotta contro la diffusione del qaidismo. In Africa la Russia ha poco spazio ma per colpa della Cina, non degli Stati Uniti. Anche all’Avana e Caracas hanno più peso la potenza commerciale e gli investimenti cinesi.
Il continente europeo è un’altra storia. Ricordando che la Russia è sempre stata un impero terrestre (la potenza di Gran Bretagna e Stati Uniti è oceanica), è in questo immenso territorio che Putin sogna di costruire la sua comunità euroasiatica. Fino ad ora sono stati arruolati Bielorussia e Kazakhistan, le altre repubbliche asiatiche e l’Armenia sono candidature certe. Il disegno di ricreare con altri mezzi l’Unione delle repubbliche sovietiche è evidente ma l’amministrazione Obama non ha mai mostrato di volersi occupare del problema: questa parte del mondo è fuori dalle sue sfere d’influenza. Ritirandosi dall’Afghanistan, quest’anno gli americani lasceranno anche l’unica base di transito che avevano nella regione, a Manas in Kyrgyzstan.
Nemmeno l’Unione europea obietta al lento riformarsi di questa comunità euroasiatica. In nome del realismo politico e delle molte questioni aperte con la Russia, sia gli Stati Uniti che la Ue avevano già venduto anche l’Ucraina alla determinazione russa di averla nel suo spazio geopolitico ed economico. A Washington e a Bruxelles le credenziali di Yulia Timoshenko non erano mai sembrate cristalline.
Fino a che gli ucraini non sono scesi in strada a protestare, a farsi arrestare, ferire, uccidere, giorno dopo giorno in nome di una libertà molto simile alla nostra. Non si può ignorare la determinazione di un popolo nel voler essere europeo, quando quel modello sembra in grave crisi: almeno a noi, guardando da dentro. Né il realismo di Barack Obama il quale di tutto vorrebbe occuparsi tranne che di affari internazionali, poteva disinteressarsi al massacro ucraino.
Il problema ora è come uscirne bene: come favorire la crescita democratica dell’Ucraina senza perdere il contatto con la Russia. Più della Bielorussia e dell’Armenia, l’Ucraina è fondamentale per il disegno di Putin. E’ difficile immaginare quello spazio euroasiatico senza il più importante dei potenziali partner a Ovest di Mosca. La sfida è notevole, per noi e per gli Stati Uniti: non possiamo più abbandonare l’Ucraina né rinunciare alla collaborazione internazionale con la Russia. Per la Ue alla vigilia delle elezioni, è un banco di prova ancora più decisivo. Aiuterebbe gli elettori europei a ricordare che il futuro dell’unione non è solo banche tedesche e moneta comune ma un insieme più ampio di diplomazia, valori e ideali.