Oggi mi faccio un regalo. Commettendo un perfetto peccato di hubris,dedico un post a me stesso. Mi permetto di farlo – imponendolo ai lettori di questo blog – perché oggi compio 60 anni. La scienza e la civiltà nutrizionale ci permettono di vivere più a lungo. Ma se non so quando mi capiterà di morire clinicamente, so quando avverrà il mio decesso professionale: alla mezzanotte del 31 gennaio 2015 verrò prepensionato. Eventualmente prima, non dopo.
E’ la data concordata dal sindacato e dalla proprietà del Sole 24 Ore. Non intendo dedicare un post a questa vicenda, non intendo protestare (lo faccio ma contro la scienza: c’era bisogno di tutti questi passi avanti della medicina se poi devo andare in pensione a 60 anni, figo come sono?), non intendo lamentarmi. Ho avuto una carriera fortunata, non opporrò resistenza e non starò un secondo di più.
Nel giorno del mio compleanno intendo invece parlarvi del mio lavoro. Poiché il delitto di presunzione (hubris per i greci era il peccato commesso da chi sfidava gli dei) l’ho già commesso, e l’occasione non è delle più felici, parlerò delle tre volte che ho pianto in 38 anni di servizio.
E’ un’autodenuncia. Ho sempre pensato che un giornalista non debba commuoversi. Sarebbe come il chirurgo che si mette a piangere mentre usa il bisturi: non è questo che vuole il suo paziente come, penso, nemmeno il lettore dal giornalista.
Uno. Marzo 1984. Dopo un mese passato a Jegdalek con i mujaheddin, avevamo tutti voglia di tornare a casa: loro nei campi profughi afghani in Pakistan, dopo un turno di combattimenti al fronte. Io nel mio mondo. Non esistevano i satellitari, da troppo tempo Montanelli (allora lavoravo al Suo Giornale) e la famiglia non avevano notizie di me. Gli ordini del comandante di Jegdalek, congedandoci, erano stati di marciare la notte.
Erano le uniche ore sicure: il cielo era terso e con la luce i Mi-24, gli elicotteri russi da combattimento, controllavano i sentieri. Dopo il terzo dei cinque giorni di marcia, decidemmo di ignorare la raccomandazione del comandante. Avevamo tutti voglia di tornare a casa. Due Mi-24 ci presero a metà di un sentiero: a sinistra la montagna, a destra un pendio ghiaioso e ripido nel quale ci buttammo. Arrivai in fondo con la rotula sinistra penzolante. Era già uscita una volta, 10 anni prima, in una partita di calcio del liceo Carducci: ero stopper nella “nazionale” del corso E. Ma non è per questo che piansi, la rotula la sistemai da solo. Accanto a me c’era un mujahid di 16 anni. Aveva nello stomaco la scheggia di un razzo russo. Morì con la testa appoggiata sul mio ginocchio buono, lo conoscevo da un mese. E’ per lui che piansi.
Due. Dicembre 1984. Arrivai a Bhopal due giorni dopo l’esplosione nella fabbrica di pesticidi della Union Carbide, che avrebbe ucciso 3.787 persone subito e un numero imprecisato nel tempo. Avevo passato la notte all’aeroporto di Delhi sgomitando per salire sull’unico aereo previsto per la capitale del Madhiya Pradesh. Quando il portello si aprì all’alba a Bhopal, ritrovai l’odore della morte. Avevo appena incominciato a riconoscerlo. Erano gli inizi, allora avevo 30 anni. In seguito ci sarebbero state tante altre occasioni per imparare a non farci caso.
Passai la giornata negli slum a ridosso del muro della fabbrica, incontrando i sopravvissuti; fuori dagli ospedali a contare – ancora mi chiedo a cosa servisse – tutti i cadaveri che vedevo; dentro gli ospedali, dove l’unico dubbio dei medici era quando sarebbero morti i loro pazienti.
Stesa su un materassino di plastica, una bambina che probabilmente non aveva due anni, mi fissava. Aveva occhi neri resi ancora più intensi dal kajal, il trucco che la madre le aveva fatto come portafortuna, forse la sera prima della tragedia. Portava anche un tilaka rosso, il neo hindu sulla fronte, che avrebbe dovuto proteggerla. Ansimava, il medico mi disse che non sarebbe arrivata alla mattina seguente. Aveva respirato troppo pesticida. Passai a visitare altri giacigli ma quando mi girai di nuovo a guardarla, lei non aveva smesso di fissarmi, ansimando alla ricerca di ossigeno. Quando tornai in albergo singhiozzai senza vergogna per una buona mezz’ora: potevo permettermelo, avevo il fuso orario a mio favore. Poi feci scorrere il foglio nel rullo della portatile e incominciai a scrivere.
Tre. Novembre 1995. La sera prima migliaia di ragazzi avevano atteso ore per sfilare davanti alla sua bara, sul piazzale della Knesset. C’era la luna piena e l’aria era tiepida: l’autunno a Gerusalemme è delicato. Più che il generale vittorioso e l’uomo di pace, Yitzhak Rabin per loro era probabilmente un nonno. Non era facile averne uno in Israele. Vent’anni fa la generazione dei nonni era quella passata dai campi di sterminio.
Al funerale sul Monte Herzl, il giorno dopo, parlarono la nipote Noa, Clinton, Mubarak, naturalmente Shimon Peres. E parlò re Hussein di Giordania. “Non pensavo sarebbe mai venuto un momento come questo, quando avrei pianto un fratello, un collega, un amico. Un uomo, un soldato incontrato sul campo di battaglia, rispettato da noi quanto lui rispettava noi. Un uomo che ho imparato a conoscere perché entrambi avevamo capito che dovevamo superare ciò che ci aveva diviso… Qui, in piedi davanti a te, prometto il mio impegno assoluto per garantire il nostro lascito di pace”. Nella tribuna stampa di fronte a quella delle autorità, piansi cercando di non essere visto dai colleghi. Finsi di sbadigliare, di stirarmi, starnutire, tossire.
Anche adesso mi viene da piangere pensando che Bibi Netanyahu, uno degli istigatori morali dell’assassinio di Rabin, oggi governa Israele; e che resta lontana quella pace per la quale anche re Hussein dette la vita. Ma sarebbero lacrime di stizza, a queste ho sempre saputo resistere.
Dal funerale di Rabin ai massacri del Cairo nell’estate 2013 – il mio ultimo servizio di una certa forza emotiva – non ho più pianto. Ho smesso di commuovermi e forse è per questo, credo, sia venuto il tempo di guardare alla pensione. Perché la verità scoperta troppo tardi è che un vero giornalista deve avere il coraggio di piangere.