E adesso Barack Obama è plasticamente solo. Fino a oggi era una deduzione logica. Il G20 ne ha dato una dimensione fisica, misurabile: un mondo di dinieghi, qualche pacca di comprensione sulla spalla al banchetto dell’altra sera. Ma niente documento sulla Siria, come se la profondità del dissenso all’intervento armato, consigliasse di evitare l’argomento. Nemmeno il sostegno di Turchia, Canada e Francia, con tutto il rispetto per la sua Force de Frappe, il terzo più grande arsenale nucleare, può riempire una solitudine politica Più che militare.
Per la Gran Bretagna, l’alleato di cent’anni di guerre, simpatizza solo il premier. Nella loro lotta medievale contro gli sciiti, i sauditi sunniti sono d’accordo ma naturalmente non partecipano. Del Qatar, altro grande sostenitore delle opposizioni siriane, da quando l’emiro Hamad ha abdicato, si sono perse le tracce. Perfino Israele, l’alleato principale in Medio Oriente, è d’accordo con il bombardamento purché non provochi la caduta di Assad che a Gerusalemme continuano a preferire alle incertezze di un eventuale dopo.
Ma la posizione più grave è quella di Vladimir Putin. In tutte le altre imprese militari americane in Medio Oriente, la Russia si era astenuta o verbalmente opposta: questa volta aiuterà il regime siriano, proponendo una riedizione post-Guerra fredda, della crisi di Berlino e dei missili di Cuba, nel 1961 e nel ’62.
Che fare, dunque, per parafrasare Lenin, un
altro russo. Se Obama bombarda non crea le condizioni per nessuna trattativa né
punisce il regime che resterà intatto perché ora è più forte e molto meno
isolato di prima. Non fisserebbe nemmeno la norma che vieta l’uso delle armi
chimiche, il suo obiettivo morale. Anche se non bombarda non ci sarà alcun
avanzamento della diplomazia. Qualsiasi cosa faccia, dunque, il risultato sarà
lo stesso e questo equivale a una Waterloo politica.
Dopo il no del G20, quasi sfacciato nella sua
evidenza corale, a cosa può servire l’eventuale voto positivo del Congresso, se
non a isolare ancora di più gli Stati Uniti? C’è qualcosa di tragico nella
presidenza di Obama, se il sostegno all’azione viene dai repubblicani e i
perplessi sono i democratici. L’uomo che era stato eletto per finire le guerre,
come i predecessori ne sta organizzando una nuova. E diversamente dagli altri,
la sta facendo senza un voto dell’Onu, senza la Nato, in pericolosa solitudine.
La credibilità degli Stati Uniti in Medio
Oriente è probabilmente scesa al di sotto degli abissi raggiunti da George
Bush. Per gli arabi esiste un peccato originale: l’appoggio incondizionato a Israele,
la priorità americana nella regione. Perfino l’opinione pubblica araba
favorevole alla caduta di Bashar Assad si indigna quando gli Stati Uniti
propongono di punire il regime siriano e tollerano l’occupazione israeliana
della Cisgiordania: per loro è un doppio standard inaccettabile. Ironicamente,
la politica di Barack Obama scontenta anche Israele. “La maggioranza degli
israeliani, giudicando i commenti dei giornali e dell’uomo della strada, non ha
fiducia di Obama e dell’America che guida”, scrive sul Los Angeles Times Benny
Morris, un grande storico diventato falco.
Ma il problema non riguarda solo il Medio
Oriente. E’ ormai globale. Una buona presidenza americana sa mantenere un
equilibrio fra le necessità nazionali e i suoi compiti internazionali. Invece è
come se Barack Obama, avendo stabilito che la priorità è rimettere in moto
l’economia americana e riequilibrare la sua società diseguale, non abbia il
tempo e le idee necessarie per mantenere il suo ruolo di prima potenza
politica. Quello che tutti sapevano sarebbe stata una lenta e ragionata
ritirata dai suoi impegni mondiali, sta diventando una rotta.
Non è una buona notizia per l’America e
nemmeno per noi. Non esiste neanche l’ombra di un nuovo ordine internazionale
che affianchi il declino della superpotenza. Non lo sarà mai l’Onu, il G20 è
solo un club consultivo e i Brics sono solo l’acronimo di cinque Paesi
emergenti senza un interesse comune.