Sembra una storia da Libro Cuore. Ma queste cose, le poche volte che accadono, fanno bene all’anima e alla salute più in generale. La storia è questa.
Una decina di giorni fa un gruppo di 30 studenti palestinesi dell’Università di Al-Quds sono andati in Polonia, in visita ad Auschwitz-Birkenau. Due sopravvissuti all’Olocausto hanno fatto loro da guide. Contemporaneamente in Palestina, un gruppo di studenti israeliani era in visita al campo profughi di Dheisheh, alle porte di Betlemme. Le loro guide locali hanno spiegato ai giovani il significato della Nakba, la Catastrofe del 1948, quando la nascita dello Stato d’Israele trasformò in profughi centinaia di migliaia di palestinesi.
Non era la prima volta che i giovani dell’Università del Negev visitavano un campo palestinese. Era invece la primissima che dei palestinesi visitavano uno degli epicentri dell’Olocausto. Tutto questo è parte del programma “Riconciliazione e risoluzione dei conflitti” realizzato dall’Università tedesca di Jena, dalla Ben Gurion e dalla Al-Quds.
Il professor Mohammed S. Dajani, insegna Studi americani all’Università palestinese di Gerusalemme (Al Quds per gli arabi) ed è fra i promotori del programma. C’è da stupirsi che non sia già stato candidato al Nobel per la pace. Dajani, che è anche il leader di Wasatia, una Ngo che promuove l’Islam moderato, tiene a specificare che con questo programma incrociato di visite studentesche, non si vuole fare alcun paragone fra i sei milioni di vittime dell’Olocausto e le vite di centinaia di migliaia di palestinesi stravolte dalla Nakba. Le due tragedie storiche sono solo assimilate come i due momenti centrali della narrativa dei due popoli nemici.
“Uno dei miei studenti – ha spiegato Dajani al giornale Ha’aretz – mi ha chiesto perché dovremmo imparare dall’Olocausto quando gli israeliani vogliono perfino bandire l’uso della parola Nakba. La mia risposta è stata: Perché facendolo, farete la cosa giusta. Se loro non fanno la cosa giusta, è un loro problema”. Per la cronaca credo sia giusto aggiungere che Mohammed Dajani è stato bandito da Israele per 25 anni: profugo in Libano, era un attivista di Fatah.
Anche nell’altro campo ci sono alcuni Dajani israeliani. Mi viene in mente l’avvocato Michael Sfard di Tel Aviv che difende nei tribunali israeliani i palestinesi vittime dei soprusi del governo, dell’esercito o dei coloni. “Sa qual è la parte migliore del mio lavoro?”, mi disse una volta. “Quando vado in tribunale ad aprire la causa di un palestinese. Non sono qui ad applicare i principi dei palestinesi, dico sempre all’inizio del dibattimento, ma per affermare i valori dello Stato d’Israele: la difesa della vita umana e l’uguaglianza della legge”. Michael era uno dei protagonisti del mio libro “Il sogno incompiuto”. Non faccio pubblicità: Marco Tropea lo ha pubblicato ormai sei anni fa.
Lo so, non cerco ragioni di conforto: qui stiamo parlando di eccellenze umane, non di consuetudine. E’ da un bel po’ che non mi faccio illusioni sul conflitto fra israeliani e palestinesi. La ragione principale dell’infinita durata dello scontro è nell’incapacità dei due popoli di mettersi l’uno nei panni dell’altro. Chi riesce a farlo è un eroe e nella gran parte dei casi ne resta deluso o ne paga le conseguenze all’interno della sua stessa tribù. Ma se ti limiti all’odio, senza studiare le origini dell’odio dell’altro, l’ostilità resterà sempre un muro di ghiaccio ideologico e diplomatico.
Nel furore della seconda Intifada un ragazzo palestinese con una cintura esplosiva andò a Ben Yehuda, nella Gerusalemme ebraica, a cercare un capannello di coetanei israeliani. Si fece saltare in aria solo quando lo trovò. Fui accusato di essere un antisemita per aver scritto che per sconfiggere quel terrorismo bisognava conoscere le origini di tanto odio. In un dibattito a Roma, organizzato da un movimento filo-palestinese fui sbeffeggiato per aver invitato il pubblico a studiare la storia contemporanea del popolo ebraico.
Non affermo una sorta di relativismo. Questo è un conflitto fra occupati e occupanti. E questo è il punto di partenza fondamentale perché si trovi “una modica forma di giustizia per i palestinesi” come mi disse una volta Walid Khalidi che insegnava ad Harvard. Anche lui era un profugo. Nel libro “All That Remain”, Khalidi aveva raccolto la storia di tutti i 418 villaggi palestinesi che nel 1948 gli israeliani avevano cancellato dalla faccia della Terra. Studiando il passato cercava anche lui un filo di speranza per il futuro.
Allego il commento sulla candidatura egiziana del generale al Sisi, uscito la settimana scorsa sul sito del Sole-24 Ore.
Mercoledì sera è apparso in divisa per l’ultima volta in pubblico, ad annunciare in tv la sua candidatura presidenziale. Ma Abdel Fattah al-Sisi, 60 anni a novembre, l’uniforme non la toglierà mai del tutto: non durante la campagna elettorale, ancor meno quando governerà – la vittoria è scontata – come mai la svestirono i suoi predecessori Gamal Nasser, Anwar Sadat e Hosni Mubarak.
Perché questo sarà il futuro presidente dell’Egitto: un leader nella continuità storica e politica di chi lo ha preceduto, non la guida di una nuova democrazia. Un generale con la conoscenza e il pieno controllo dello “Stato profondo: l’apparato burocratico e ministeriale, delle imprese pubbliche, del sistema poliziesco, militare e giudiziario, essenziale per governare ogni Paese. Soprattutto l’Egitto e tutte le democrazie imperfette. I Fratelli musulmani e Mohamed Morsi non lo controllavano e hanno perso il potere in un anno.
Il cammino, anzi la marcia da parata verso il potere di al Sisi, è la constatazione della fine della rivoluzione di piazza Tahrir. L’etica di quella rivolta era l’Egitto democratico, liberato dal potere del deep state e con i militari nelle caserme, al servizio e non alla guida del governo e della nazione.
Che la sconfitta di piazza Tahrir sia un male o un bene per l’Egitto, è onestamente difficile da affermare. Fra gli elementi di un possibile giudizio occorre aggiungere l’incapacità dei giovani di passare dalla piazza a una nuova forma di potere, l’avvento e la caduta della fratellanza islamica dimostratasi impreparata al governo, il precipitare della crisi economica, le violenze, l’insicurezza, il terrorismo.
Il problema dell’Egitto è che nemmeno Abdel Fatah al Sisi in grisaglia (ma col cuore in mimetica) potrebbe essere capace di risolvere i giganteschi nodi del Paese. Forse è per questo che sono passati mesi perché al Sisi sciogliesse le riserve su una candidatura data per scontata nel Paese e nel resto del mondo. Sarebbe stato più realistico lasciare che un altro si candidasse, che al Sisi governasse dietro le quinte. Ma forse il feldmaresciallo già comandante in capo delle forze armate, del Consiglio supremo militare e ancora vice-premier, ministro della Difesa e della sua industria, è convinto di avere le stigmate del comando. E’ convinto di sapere come salvare l’Egitto.
A prima vista il modello di al Sisi è Napoleone che riportò l’ordine nella Francia rivoluzionaria, imponendo una monarchia imperiale. Potrebbe invece essere de Gaulle, il generale che fece ciò che un militare non avrebbe mai fatto: liberare la Francia dai resti del suo colonialismo, modernizzarla riformandola, affermare la centralità della repubblica. Anche de Gaulle indossava spesso divisa e chepì, senza che questo avesse un significato politico.
In ogni modo, le elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi in estate, dopo il mese di Ramadan tra fine giugno e luglio, non saranno democratiche. Il modello sarà quello del recente referendum sulla Costituzione: ognuno votava come voleva, ma chi faceva propaganda per il no veniva arrestato per sedizione. Sarà difficile trovare concorrenti degni di questo nome. Ai Fratelli musulmani sarà impedito di candidarsi, altre opposizioni organizzate non ce ne sono.
Il solo candidato che per ora si è pronunciato, oltre al Sisi, è Hamdeen Sabahi, intellettuale di sinistra popolare al Cairo e sconosciuto fuori città. L’anno scorso, in un’intervista al Sole-24 Ore, aveva detto che in caso di candidatura di al Sisi, lui avrebbe ritirato la sua. Ma anche se la confermasse, Sabahi è un nasseriano come al Sisi.
L’assenza di effettiva democrazia al voto sarà tuttavia quasi irrilevante. Le elezioni serviranno per dare finalmente all’Egitto una leadership riconoscibile dentro e fuori il Paese. Se al Sisi farà prevalere lo spirito laico o militare della sua presidenza, se farà le riforme necessarie o sarà un populista, se ricucirà l’alleanza con l’America o si farà conquistare da Vladimir Putin come è sembrato in questi mesi, si vedrà più avanti.