Possiamo – anzi dobbiamo – mantenere tutte le cautele e i sospetti del caso. Però non è consentito ignorare l’incredibile potenzialità di ciò che sta accadendo fra Stati Uniti e Iran: apparentemente uno di quei miracoli che sembrano accadere d’improvviso, che invece sono il frutto di una lunga maturazione. Come la fine dell’Unione Sovietica, la liberazione di Nelson Mandela dopo 27 anni di carcere, gli accordi di Oslo fra israeliani e palestinesi, la democratizzazione di Myanmar.
Immaginiamo per un momento – ma solo per un momento – che ci sia un accordo sul nucleare iraniano: Teheran apre tutti i suoi siti agli ispettori Onu e gli Stati Uniti con l’Europa allentano limitatamente e progressivamente le sanzioni economiche contro l’Iran. Non è poi una grande fantasia: è esattamente quello che i due Paesi hanno detto dentro e attorno al Palazzo di Vetro durante l’assemblea generale Onu, dimostrando di avere due progetti quasi uguali; è quello che si sono ripetuti i due ministri degli Esteri incontratisi a New York; ed è ciò che hanno ribadito Barack Obama e Hassan Rohani nella prima telefonata fra i capi dei due Paesi dalla caduta dello Scià, 34 anni fa.
Supponiamo dunque che si arrivi a un accordo: che dunque cada la minaccia di un Iran con la bomba e i rapporti diplomatici con gli Stati Uniti raggiungano un livello di normalità. Proviamo a immaginarne le conseguenze. L’Iran continuerebbe a produrre energia nucleare e ad avere interessi regionali, ma in un quadro non più pericolosamente competitivo. L’Iran parteciperebbe utilmente al negoziato per una soluzione del conflitto siriano. Bashar Assad dovrebbe tenere conto che a Teheran gli Stati Uniti non sono più il ”grande satana”. Anche Hezbollah libanese, la cui forza militare dipende dall’Iran, dovrebbe adattarsi alle mutazioni climatiche della diplomazia regionale. Verrebbe meno la sponsorizzazione iraniana di una parte del terrorismo regionale. L’Arabia Saudita potrebbe avviare contatti con un Iran “civilizzato” per creare un nuovo assetto di sicurezza nel Golfo e per garantire esportazioni sicure a tutti i produttori di energia della regione.
E Israele. Il più minacciato dal vecchio Iran
e che da un ipotetico nuovo avrebbe solo da guadagnarci. Ahmadinejad negava
l’Olocausto, proponeva di ributtare gli ebrei a mare ed era un sostenitore di
un Iran con la bomba. Hassan Rohani ha ammesso il primo, critica Israele ma non
ne minaccia l’esistenza e annuncia di non volere la bomba. A parole. Fatti più
concreti e credibili devono ancora venire. Ma non possiamo negare che quelle di
Rohani siano parole pesanti seguite da alcuni gesti promettenti.
Invece no. Israele di Bibi Netanyahu non
perde mai l’occasione per apparire antipatico. Il primo ministro aveva ordinato
ai suoi diplomatici di disertare l’aula dell’Assemblea generale durante il
discorso di Rohani; ha dato dell’ingenuo a Barack Obama; ha mobilitato la lobby
ebraica americana e il Partito repubblicano che da questa dipende (i
repubblicani sono partiti in quarta contro Obama, la lobby che è molto più
intelligente è cauta).
Bibi vedrà il presidente alla Casa Bianca e
parlerà all’Assemblea generale denunciando ancora una volta la minaccia
iraniana e gli inganni dietro i sorrisi di Rohani. Verrà fuori di nuovo che le
aperture di Obama sono un’altra “Monaco 1938”. Secondo il giornale Ha’aretz, Bibi è una “Cassandra cronica”.
Quale è la logica in questa ostinazione a non
credere mai, nemmeno a supporre? Nessuno sta cedendo all’Iran, nessuno ignora
che in questa storia Israele sia il Paese più minacciato, nessuno esclude che
Rohani possa non volere o non essere capace di fare quello che promette.
Nessuno però finge di ignorare, come Bibi finge, che gran parte dell’apparato
strategico, militare e di sicurezza Israeliano, passato e presente, sia
contrario a bombardare l’Iran.
Cosa costa alla sicurezza di Israele – quella
reale, non l’ossessione della destra nazionalista - dare una fiducia cauta e vigile a Hassan
Rohani? Cosa impedisce di dargli un aiuto, offrire qualche incentivo alla sua
promessa di cambiamento? L’accoglienza che gli è stata riservata al ritorno in
Iran – gli applausi dei giovani e le proteste della vecchia guardia
rivoluzionaria – dimostrano che le cose sono serie e il lavoro di Rohani sarà
difficile come quelli di ogni riformatore. I sostenitori israeliani della pace
con i palestinesi lo sanno bene.
Nessuno pensa che da due giorni Israele non
sia più un Paese in pericolo. Rohani non ha raggiunto alcun obiettivo, ha solo
iniziato un camino che merita di essere sostenuto. Se anche gli israeliani
partecipassero, convincendosi che di tanto in tanto il mondo può migliorare,
questo sarebbe d’aiuto.