“We need to finish the job”, ha detto il presidente degli Stati Uniti. In altri discorsi sullo stato dell’Unione di altri presidenti, in altre epoche, il lavoro da concludere era come contenere e possibilmente sconfiggere il comunismo sovietico; come realizzare un nuovo ordine internazionale o, più in piccolo, come fare avanzare la trattativa di pace fra arabi e israeliani. Il mondo, insomma, del quale gli Stati Uniti erano la guida. O, come amavano dire solo fino quattro anni fa, la “nazione indispensabile”.
Degli “State of the union” – quando tutto il potere è riunito a Capitol Hill, tranne un ministro scelto a caso, lasciato nella sala ovale con i codici nucleari, caso mai fosse il solo rimasto in vita - il primo del secondo mandato di Barack Obama è forse il più spoglio di grandi visioni mondiali. Quello che ha parlato ieri non è il leader del mondo, non è il comandante in capo di grandi coalizioni votate a sconfiggere ingiustizia e terrorismo. E’ il presidente degli Stati Uniti, un Paese che deve essere aggiustato, rivisto da capo a piedi se almeno vuole continuare ad essere un esempio di modernità e dinamismo per chi ancora continui, in questo così confuso inizio di XIX secolo, a cercare esempi da imitare.
Forse mai le questioni internazionali sono state così poco citate in un discorso sullo Stato dell’unione. Certo: la riduzione unilaterale da 1.700 a poco più di mille testate, dell’arsenale nucleare americano per dare impulso alla trattativa Start con la Russia e, più in generale, promuovere il disarmo globale. Posto che una Camera dei rappresentanti presidiata dai repubblicani sia d’accordo, è comunque un tema molto domestico.
Obama vuole risparmiare e ridurre notevolmente
il programma decennale da 80 miliardi di dollari per modernizzare i laboratori
nucleari. Il nemico oggi non è più il dottor Stranamore: è il terrorismo
tradizionale e cibernetico, la droga, il surriscaldamento del pianeta. Il vice
capo di stato maggiore, il generale James Cartwright, sostiene che anche “solo”
900 bombe atomiche garantirebbero più del necessario la sicurezza nazionale
americana. Come i 34mila soldati che lasceranno l’Afghanistan prima della fine
del 2013, con un anno di anticipo dalla scadenza fissata. Sembra più il Vietnam
che un ridispiegamento di forze graduale e meditato: l’importante è andarsene,
non più quel che sarà lasciato alle spalle.
Nessun
accenno concreto all’Iran nucleare, a rischi e opportunità delle Primavere arabe
né alla pace assente fra israeliani e palestinesi. Tutto lascia credere che la
visita di Obama a Gerusalemme e Ramallah, a fine marzo, servirà solo per
un’esortazione a due interlocutori testardi dei quali è difficile fidarsi.
L’America è stanca di alleati malfidi come il
governo afghano; alleati arroganti come Israele che crede di essere l’America e
che sia l’America un piccolo Paese da 7 milioni di abitanti; alleati
imperscrutabili come i nuovi governi islamici arabi; obsoleti come i sauditi.
L’America non ha più soldi né stamina per i loro conflitti da XX secolo. Deve
pensare a se stessa, deve tornare ad essere una terra di opportunità e di
democrazia. Ha davvero bisogno di cure.
Dovremmo credere che “finito il lavoro” gli
Stati Uniti tornino ad avere una visione del mondo simile a quella che avevano
prima. Non ci scommetterei. Quando avranno finito i lavori in casa potrebbero
scoprire di essere un’altra America.