C’è il Tibet, ci sono i dissidenti. Poi le guerre commerciali, la loro silenziosa ma metodica espansione, il fingere che il Renminbi sia una valuta da morti di fame quando invece è un ariete. Consumano petrolio come fosse Coca-Cola, comprandolo dai regimi peggiori non appena noi a quelli imponiamo sanzioni. Non parliamo poi di un surplus e di riserve valutarie con le quali potrebbero comprarsi tutto il nostro debito e altro ancora. Eppure questo Xi Jinping con il cognome che ricorda la schedina del Totocalcio, a me è simpatico.
Ha mandato una figlia a studiare ad Harvard e la moglie Peng Liyuan, una cantante folk, una specie di Dolly Parton cinese in divisa, è più famosa di lui. Saranno sempre maledetti comunisti ma un po’ diversi da Leonid Breznev che sembrava non avesse una vita fuori dall’iconografia del partito. Xi (perché in Cina il cognome viene prima del nome) è il vicepresidente cinese e fra un anno diventerà presidente al posto di Hu Jintao. Non ci saranno elezioni perché non c’è partito fuori dal Pcc. Ma il fatto che ogni 10 anni il vertice decida di rinnovarsi, che chi ha avuto tutto il potere vada a casa, che al vertice non ci siano mai faraoni né mummie, fa della Cina una dittatura a parte.
Come tutti i suoi predecessori, Xi ha appena fatto un viaggio negli Stati Uniti. Non per conoscere il nemico: lo aveva già fatto nel 1985, stando per un po’ a Muscatine, Iowa, ospite della famiglia Dvorchak per studiare l’agricoltura americana. Non per annunciare l’ineluttabilità della vittoria comunista, come fece una volta Nikita Krushev. Nel 1959 Krushev chiese anche di andare a Disneyland. Anche Xi l’altro giorno è stato in California ma per vedere una partita dei Lakers.
No, niente di tutto questo, nulla dei vecchi parafernalia comunisti. Xi è andato negli Usa per presentarsi, per prendere contatto. A partire dall’anno prossimo, se ci sarà un problema serio, dovrà parlare lui sulla linea rossa con Barack Obama. Sempre meglio conoscersi prima, per evitare pericolosi fraintendimenti.
Xi ha parlato col presidente, col vicepresidente Joe Biden, col segretario alla Difesa Leon Panetta e molti altri. E’ stato un “dialogo aperto”, dicono gli americani, tutti i seri problemi che dividono la prima e la seconda superpotenza mondiale sono stati discussi. Grande realismo. Più di ogni altra cosa, tuttavia, mi ha colpito come Xi abbia risposto a chi gli ricordava del Tibet e delle quotidiane violazioni sui diritti umani in Cina. Il prossimo presidente cinese non ha detto, come avrebbe potuto: “Chiedete ai messicani cosa pensano degli americani, quando ricordano che gli hanno rubato il Texas, l’Arizona, il Colorado, il Nevada e la California”. No, dopo aver ricordato che comunque in 30 anni la Cina ha fatto “grandi passi avanti” nel campo delle libertà, ha aggiunto: “Naturalmente c’è sempre spazio per migliorarci quando parliamo di diritti umani”.
Nella mia carriera, visitando Cuba, il Venezuela, l’Iran o alcune dittature africane, alla domanda sulla democrazia mi sentivo sempre rispondere allo stesso modo: democrazia? Certo che l’abbiamo: la nostra è una democrazia popolare o islamica o socialista, oppure popolare, antirazzista, antifascista e/o anticomunista. Del bene cosmico.
Tutte le volte che in Cina ho posto la stessa domanda, a qualsiasi livello lo facessi, la risposta era: “E’ vero, non siamo un Paese democratico. Prima avevamo altre cose da fare come sfamare la gente, riportare l’ordine, stimolare di nuovo l’imprenditorialità cinese. Fra 25 anni avremo anche la democrazia”. E’ una risposta ambigua e teatrale. Ma c’è un fondo di verità se liberare la gente dalla fame è una delle conquiste fondamentali della libertà umana.
Non sarà mai facile avere a che fare con i cinesi nel XXI secolo che, sembra, sarà il loro secolo. Ma nemmeno così difficile come ce la vendono, per esempio, i repubblicani americani in cerca di un nemico assoluto ogni volta che sono sotto elezioni.