La questione egiziana è fra democrazia e stabilità. Così almeno la mettono i militari che hanno sostenuto la protesta di gennaio, ne hanno determinato l’apparente lieto fine il mese successivo, scelto il governo e riportato l’ordine, facendosi garante della transizione democratica. Avevano promesso che in sei mesi si sarebbero fatti da parte. Ne sono passati 10 e anziché andarsene, hanno più potere di prima.
La questione iniziale torna di nuovo: quale è l’alternativa ai militari? I mesi passati non sono stati molto tranquilli al Cairo: un paio di attentati alle chiese copte, un assalto all’ambasciata israeliana, una manifestazione copta repressa nel sangue. Potrebbe essere la cronaca di un Paese condannato a un faraone che ne garantisca l’ordine; o potrebbe essere la storia di una studiata strategia della tensione per convincere tutti a preferire i militari.
Il 28 ci saranno le elezioni dalle quali nascerà un parlamento che deve nominare una commissione costituzionale di 100 persone: il futuro dell’Egitto sarà molto più condizionato da questi 100 che dal Parlamento. I militari vogliono nominarne più della metà affinché gli obblighi costituzionali della nuova Carta non riguardino loro: il ministro della Difesa lo decidono loro, il bilancio delle Forze armate non può essere sottoposto al controllo civile, giù le mani dall’apparato economico dei militari che ancora oggi rende altamente vantaggioso diventare ufficiale.
L’Egitto è e forse resterà una repubblica presidenziale: in attesa delle elezioni per il presidente, non ancora stabilite, comanda il governo il quale è nominato dal Consiglio militare di transizione che decide tutto per decreto. E’ quasi banale ritrovare tracce evidenti del modello militare turco.
E’ a questo che venerdì scorso volevano opporsi con una manifestazione i giovani del movimento 6 Aprile, quello che iniziò la rivolta di piazza Tahrir, i Fratelli musulmani e alcuni – pochi – partiti democratici, cioè laici. Fatta la manifestazione di venerdì, democristianamente la Fratellanza ha lasciato la piazza: Giustizia e Libertà, la sua forza politica creata per le elezioni, è contemporaneamente partito di lotta e di governo. In mezzo a quel che resta del simbolo di piazza Tahrir ci sono solo i giovani che non hanno leader. Un paio di mesi fa al Festival di Internazionale a Ferrara avevo rimproverato questa mancanza a Hossam el-Hamalawy, blogger importante e uno dei simboli della rivolta di gennaio. “Non abbiamo voluto crearne perché il nostro Paese ha avuto fin troppi capi assoluti”, era stata la sua risposta. Ineccepibile sul piano morale, ingenua su quello politico: giustifica l’idea di stabilità a scapito del rinnovamento, professata dai militari.
Il generale Mohammed Tantawi, per 20 anni ministro della Difesa di Hosni Mubarak e ora alla guida della transizione, è un leader con la sua agenda. I Fratelli musulmani sono pieni di leaders. Gli islamici vinceranno le elezioni, anche se hanno deciso di correre solo per il 60% dei seggi. I militari vendono la paura di questo successo e il loro slogan subliminale – democrazia o stabilità – ha molti estimatori: Stati Uniti ed Europa che temono l’Islam politico; l’Arabia Saudita che non potrebbe sopportare un Egitto democratico e di successo; gli israeliani che dai militari si sentono rassicurati; molti partiti democratici egiziani i quali temono una Costituzione islamica; i copti cristiani che, come tutte le minoranze, preferiscono essere protetti da un potere forte. In realtà non si tratta di uno scontro fra laicità garantita dai militari e Fratellanza: le cose non sono così nette, è da febbraio che islamici e militari si riconoscono come le due vere forze che determineranno il futuro dell’Egitto, e discutono. Gli unici senza un leader e con un’agenda trasparente come l’acqua, sono i giovani che hanno iniziato tutto e ora perderanno quasi tutto.