Accompagnato da uno stuolo di giornalisti, Antonio Tajani è venuto in Israele. Al porto di Ashdod il ministro degli Esteri ha assistito allo sbarco allo degli aiuti umanitari italiani destinati a Gaza. Come aveva spiegato il giorno prima a Roma, alle Commissioni Esteri, Tajani sarebbe venuto qui “per discutere il coordinamento del cessate il fuoco e il rilancio del processo politico verso la soluzione dei due stati”.
Un piccolo contingente di Carabinieri è già in missione al valico di Rafah, fra la striscia e l’Egitto. Una presenza utile. E fa bene al paese esserci, in questa regione che è anche la nostra: parte dei caschi blu dell’Unifil nel contributo alla stabilizzazione del Libano; a Gaza ora e soprattutto dopo, se inizierà una fase di pace, speranza e ricostruzione.
Quando aveva spiegato a Camera e Senato gli obiettivi della visita, Tajani già conosceva le esternazioni di Donald Trump; e già i suoi colleghi dell’Europa che conta – quella alla quale vogliamo appartenere – avevano protestato. Piaccia o meno alla nostra diplomazia, giovedì il ministro era arrivato con un’agenda forse superata in una regione con una realtà pericolosamente nuova.
Gideon Sa’ar, l’omologo israeliano che Tajani aveva poi incontrato, si era già schierato a favore di una Gaza americana che, garantiva, affosserà una volta per tutte l’ipotesi di uno stato palestinese. Forse non basta più ribadire che invece noi vediamo nel raggiungimento di quello stato l’unica soluzione politica e dunque pacifica, di un conflitto troppo lungo. Forse occorrerebbe essere più consequenziali.
Ma il problema di un cambiamento di paradigmi e di come reagire al sempre più evidente mutamento degli obiettivi della politica estera americana, non riguarda solo il Medio Oriente. Sulla scorta della surreale conferenza stampa alla Casa Bianca, quale soluzione offrirà Trump per Ucraina e Donbas, quando verrà il momento di parlarne? Lascerà Taiwan alla Cina? In Europa sceglierà Bruxelles o Budapest? Nella penisola coreana agevolerà il regime del Nord o quello democratico del Sud?
Salvo qualche notevole contraddizione – il Vietnam, l’Afghanistan, l’Iraq – nelle relazioni internazionali gli Stati Uniti sono sempre stati la potenza stabilizzatrice, garanti di uno status quo che loro stessi avevano creato. Russia, Cina, Iran le revisioniste: disposte a stravolgere gli equilibri dati per conquistare più potere e mutare quel sistema collettivo. Oggi e almeno per i prossimi quattro anni, “the disruptor” – il disgregatore, come si era definito Trump in campagna elettorale – sarà invece l’America.
Dopo la vittoria di novembre su Kamala Harris, a Washington un amico repubblicano moderatamente Maga, mi spiegava che “d’ora in poi tutto ciò che Trump dirà, andrà preso seriamente ma non alla lettera”: un parametro utile per decodificare il significato delle sparate trumpiane.
In questo imprevedibile bipolarismo politico conta di più il presidente che diceva di voler “estrarre l’America dalle guerre senza fine del Medio Oriente”? O quello che vuole annettere Gaza, cacciare due milioni di palestinesi e farne “la Riviera del Medio Oriente”: impantanando migliaia di soldati americani e spendendo una cifra illimitata di denaro nel più intrattabile conflitto della regione?
La risposta è forse nella lettura proposta dall’amico repubblicano: non prendere alla lettera ciò che Trump dice, interpreta, cerca il vero obiettivo. Con più sfrontatezza di un diplomatico, l’immobiliarista inizia con richieste esagerate per raggiungere il prezzo che ha in mente.
Le guerre diventano sempre un grande business perché quasi sempre segue una ricostruzione. Ma prima di vedere il profitto bisogna investire tanto denaro. E spesso trascorre molto tempo fra il rischio iniziale e il guadagno finale. Chi se ne assumerebbe l’onere? Il mercato immobiliare può dare buone case alla gente e far crescere il Pil nazionale. Fino ad ora, però, non era mai stato usato per pretendere d’imporre una pace.
Secondo il senatore democratico Chris Van Hollen questa gigantesca impresa geo-politico-immobiliare non è altro che “una pulizia etnica chiamata con un altro nome”. All’immobiliarista di New York, nato con il cucchiaio d’argento in bocca, sfugge l’aspetto morale della sua idea: assomiglia troppo a una deportazione.
E’ ancora più triste che Bibi Netanyahu, premier del paese risorto dall’Olocausto, abbia definito “geniale” la sparata di Trump. E che Israel Katz, il ministro della Difesa, abbia già ordinato all’esercito israeliano di preparare un piano di evacuazione dei palestinesi di Gaza. “Volontario”, ha aggiunto, sapendo di mentire.
In realtà non c’è nulla di nuovo nella conquista americana di Gaza. Nemmeno nella fandonia che tutti, nella regione, asseconderanno le sue decisioni. Più di un’innovativa soluzione di pace, come l’ha definita Netanyahu, sembra un vecchio piano di spartizione: come quello del 1916, quando l’inglese Mark Sykes e il francese Georges Picot si divisero i resti mediorientali dell’impero ottomano. Le mappe e i confini che imposero, furono la pace che nei decenni successivi avrebbe impedito ogni altra pace in Medio Oriente, come ricorda un fondamentale libro dello storico David Fromkin.
Se il linguaggio del corpo svela i pensieri di un politico, martedì notte alla Casa Bianca anche Netanyahu faticava a nascondere la sua sorpresa. Era andato a Washington per ribadire che dopo la tregua Israele riprenderà la guerra, non una trattativa di pace per uno stato palestinese, come il resto del mondo spera.
Trump è andato oltre, stupendo tutti. Prima di ogni altro, il piano è stato respinto dall’Arabia Saudita: l’interlocutore necessario per ogni soluzione di pace e con i soldi per la ricostruzione di Gaza, sa che porterà solo nuovi conflitti.
Non è così che Trump riuscirà a raggiungere il proposito che quasi lo consuma: conquistare il Nobel per la pace. A meno che non compri la Norvegia e ne deporti in Groenlandia il Parlamento.