E’ sempre stata una piccola biblioteca di Alessandria. Anzi tre, visto che la famiglia Muna possiede tre librerie nella Gerusalemme Est araba. In una città divisa nonostante Israele l’abbia proclamata indivisibile, separata da un odio solido e crescente, questi tre luoghi sono da anni un’oasi di tolleranza e discussione.
L’altra sera la polizia israeliana ha fatto irruzione in due di queste librerie, le Educational Bookshop, che sono su Salah ed-Din, la via principale della Gerusalemme araba. Hanno messo a soqquadro gli scaffali, sequestrato decine di libri e arrestato Mahmud Muna e suo nipote Ahmad, i titolari. “Gli investigatori”, è la spiegazione ufficiale del raid, “si sono imbattuti in numerosi libri contenenti materiale provocatorio sui temi nazionalisti palestinesi. La Polizia Israeliana continuerà i suoi sforzi per contrastare l’istigazione, il sostegno al terrorismo”, e ogni altro reato “che minaccia la sicurezza dei cittadini d’Israele”.
Quella delle librerie dei Muna è una storia gerosolimitana, un segno di ciò che potrebbe essere questa terra contesa. Il primo Educational Bookshop fu aperto nel 1984. Era soprattutto una cartoleria, ancora oggi lo è. Ma presto furono aggiunti libri di carattere politico, storico, geografico. Per la prima volta veniva offerta una narrazione palestinese del conflitto: qualcosa che gli israeliani non hanno mai apprezzato, gelosi dell’unicità del loro racconto storico.
Nel 1993, si e no 300 metri a Nord della libreria dei Muna, l’hotel American Colony aveva chiuso la stanza della telescrivente Reuters, resa ormai inutile dalla diffusione dei computers. Era regolarmente occupata dai giornalisti dell’albergo perché in pace, guerra o intifada, il Colony era per definizione l’albergo della stampa internazionale. Il locale fu rilevato da Munther Fahmi. Munther faceva l’assicuratore a St. Louis, Missouri. Decise di tornare a Gerusalemme da dove era partito ragazzo per laurearsi in Business Administration, pieno di speranza per il processo di pace iniziato a Oslo. Forse, pensava, la Palestina sarebbe finalmente nata.
La sua libreria ebbe successo, la trattativa di pace no. Durante l’illusione di Oslo e anche nei giorni drammatici della seconda intifada, fra i 1.500 testi della libreria di Munther (la sala era piccola) si poteva trovare la versione originale del Corano e “Il Profeta” di Khalil Gibran, la “Storia dello Stato d’Israele” di Abba Eban e gli opuscoli dell’Olp, una guida d’Israele e una della Siria; “The Warrior”, le memorie di Ariel Sharon e “Orientalism” di Edward Said. E c’era “Scali del Levante” di Amin Maalouf, lo struggente amore fra un libanese e un’israeliana divisi dalla guerra del 1948.
Visto il successo del Bookshop di Munther, il giovane Mahmud decise di allargare l’attività dei Muna. A Salah ed-Din, sull’altro lato del marciapiede dell’ Educational originale, ne aprì una versione più internazionale: sostanzialmente gli stessi testi di Munther ma con un minuscolo bar dove sorseggiare espresso italiano e un soppalco con tavolini per conversare.
Col deteriorarsi della situazione, la fine delle illusioni e Bibi Netanyahu di nuovo al governo, Munther Fahmi decise di arrendersi e ripartire. “Ero venuto qui perché ero stanco di non avere una vera casa, ma continuo ad non averne una: definire cosa s’intende per casa è piuttosto difficile per noi palestinesi”, spiegò. Partì per il Marocco e poi la Turchia. Torna saltuariamente a Gerusalemme a trovare la vecchia madre.
Fu Mahmud Muna ad assumersi il rischio di cercare una definizione solida di casa, rilevando la libreria davanti al Colony. Vi passa le sue giornate dando la sensazione di essere lì per coccolare i suoi libri, più che per venderli. Le cose hanno funzionato, sebbene anche la descrizione di funzionare bene sia elusiva per un libraio. Soprattutto un libraio sotto occupazione.
Tuttavia le piccole biblioteche di Alessandria hanno continuato a vivere: ogni volta che vado al Bookshop di Mahmud facciamo lunghe chiacchierate sulla situazione politica qui e nel mondo, scherzando sul significato di ottimismo. Abbiamo concordato di assumere la versione proposta da un romanzo del 1974 di un grande scrittore arabo-israeliano, Emile Habibi: essere “Pessottimista”.
Habibi era un leader del Partito comunista palestinese. Nel 1990 ricevette il premio letterario al-Quds, istituito dall’Olp; due anni più tardi l’Israel Prize, il riconoscimento letterario più importante d’Israele. Quando molti intellettuali palestinesi lo criticarono per aver accettato quel premio, Habibi rispose che “una discussione sui premi è sempre meglio di una con pietre e pallottole”.
A fine gennaio Mahmud mi aveva invitato alla presentazione di “Decolonising Israel, Liberating Palestine”, dell’antropologo israelo-americano Jeff Halper, un esempio che Israele ha ancora le qualità per essere un grande paese. Probabilmente l’altra sera la polizia avrà sequestrato anche la sua opera.
In realtà qualsiasi libro in arabo, inglese o qualsiasi altra lingua che abbia in copertina una bandiera palestinese, per la polizia è illegale (anche un mio libro di 20 anni fa, “L’ulivo e le pietre”, aveva in copertina un bambino con kefiyah e bandiera). Sebbene molti di quei testi “istigatori al terrorismo” e sequestrati, fossero stati ordinati all’estero: dunque erano passati indenni attraverso i controlli della dogana israeliana.
Fra i libri incriminati gli investigatori hanno voluto mettere in evidenza una graphic novel da colorare per i bambini, creata da un illustratore sudafricano, Nathi Ngubane: “Dal fiume al mare”. Il titolo è anche lo slogan di tanti giovani palestinesi e degli studenti nelle università di mezzo mondo. Significa che tra il fiume Giordano e il Mediterraneo ci debba essere un solo stato: in questo caso la Palestina.
E’ sbagliato e non aiuta la causa palestinese. Perché, come ha spiegato Rashid Khalidi, il più importante storico palestinese che ha insegnato alla Columbia di New York sulla cattedra dedicata a Edward Said, “gli israeliani sono qui per restare, come i palestinesi sono qui per restare”. Da Mahmud Muna sono in vendita tutte le opere di Khalidi. Ma in inglese: non sono mai state tradotte in ebraico.
Se pensate – correttamente – che non sia un bene quel titolo “Dal fiume al mare” sequestrato dalla polizia, pensate anche che è il programma di governo di Netanyahu e dei suoi ministri: nessun stato palestinese dal Giordano al Mediterraneo. Poiché questo governo ha la forza per realizzarlo, i palestinesi no, nella peggiore delle ipotesi è istigazione alla pulizia etnica, nella migliore apartheid.
La definizione è molto controversa, ma dipende da quale luogo si applica l’accusa di segregazionismo. Se riguarda Israele dentro i confini del 1967, riconosciuti dalla comunità internazionale, non lo è: il 22% della popolazione è palestinese, vota ed è rappresentato alla Knesset, sebbene la legge del 2018 sullo Stato-Nazione degli ebrei ne determini una condizione da cittadini di seconda classe. Ma in Cisgiordania, nei territori occupati, l’apartheid è pratica quotidiana.
Anche a Gerusalemme Est, dove la lenta ebraicizzazione della città è in corso dal 1967. Il raid nelle librerie dei Muna ne è un prodotto. In maniera più leggera ne hanno fatto uno anche a Porta Nuova, l’ingresso del quartiere cristiano della città murata: al Gateway, “Books, wine & coffee”: si sono disinteressati del vino e del caffè, hanno solo perlustrato gli scaffali dei libri in vendita”.
Tutto questo è ancor più insopportabile quando penso che se non esistessero gli ebrei, le librerie nelle nostre case sarebbero per metà vuote: un numero incalcolabile di romanzieri, filosofi, storici, scienziati, prodotto di un grande popolo, molti dei quali sono stati vittime della stessa censura alla quale vengono sottoposte le librerie palestinesi di Gerusalemme. Per questo le biblioteche di Alessandria servono, fino a che qualcuno non le brucia.