Il muro di ferro

Spesso accade che il nome dato a un figlio, un luogo, una barca non sia casuale ma sveli convinzioni profonde, scelte religiose, politiche o familiari. Accade anche quando viene stabilito quello in codice di un’operazione militare. “Muro di ferro”, come è stata chiamata quella israeliana in corso a Jenin, è uno di questi casi.

Negli accordi per la tregua di Gaza non viene menzionata la Cisgiordania, i territori occupati dove da 58 anni città e villaggi palestinesi tentano di sopravvivere fra colonie ebraiche, posti di blocco e divieti israeliani. Tecnicamente prendere d’assalto Jenin non compromette il cessate il fuoco di Gaza, è solo un’operazione contro i terroristi: la presenza di Hamas e Jihad Islamica a Jenin è forte. Sebbene poi si uccidano e arrestino anche cittadini innocenti e si distruggano case, infrastrutture e attività economiche. Si potrebbe chiamarlo “metodo Gaza” se in Cisgiordania questo non si facesse già da anni, prima della guerra nella striscia.

Per quanti terroristi operino a Jenin, è tuttavia evidente che un assalto di quelle dimensioni metta a rischio la tregua di Gaza: lo dice perfino la nuova amministrazione americana di Donald Trump. E dunque è in pericolo anche la liberazione appena iniziata degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas.

Quest’ultima dovrebbe essere la priorità di chi governa lo stato ebraico, soprattutto di Benjamin Netanyahu. Ma è relativamente così: ciò che conta per il premier è altro. Ed ecco l’importanza del nome dato all’operazione in corso a Jenin: “Muro di ferro”, pieno di significati.

La colonizzazione sionista può procedere e svilupparsi solo dietro a un muro di ferro che la popolazione nativa (cioè i palestinesi, n.d.r.) non possa violare”, scriveva negli anni Trenta del secolo scorso Ze’ev Jabotinsky, il leader del sionismo revisionista ammiratore di Benito Mussolini. Citando gli Aztechi e i Sioux, Jabotinsky riconosceva che anche gli arabi avrebbero difeso la loro terra fino alla morte e che dunque un “accordo volontario” non sarebbe stato possibile. Da allora per la destra ebraica “muro di ferro” è sempre stato sinonimo di uso della forza e non della diplomazia, conquista territoriale, negazione di uno stato palestinese, Grande Israele dal Mediterraneo al fiume Giordano. Eventualmente oltre.

Il segretario e consigliere politico di Jabotinsky era Benzion Netanyahu, il padre del premier. Anni dopo la morte di Jabotinsky il prodotto politico del sionismo revisionista sarebbe stato e continua ad essere il Likud, il partito guidato da Benjamin Netanyahu. E’ difficile non pensare che il nome “Muro di ferro” per l’operazione in Cisgiordania sveli, anche involontariamente, la determinazione di negare l’unica soluzione politica del conflitto centenario: quella diplomatica per la creazione di uno stato palestinese. Se non in un paio di occasioni pubbliche, in oltre 15 anni di potere Netanyahu non ha mai preso in considerazione questa ipotesi. Al contrario l’ha combattuta le poche volte che è stata proposta da governi israeliani diversi dal suo.

Il sionismo revisionista si opponeva alla corrente maggioritaria di quello socialista di David Ben Gurion. E’ quest’ultimo che ha fondato lo stato d’Israele con la brutalità di ogni risorgimento nazionale (compreso il nostro) ma anche con molti dubbi morali. Tuttavia oggi è quello muscoloso di Jabotinsky che sta prevalendo sul sionismo socialista.

Se la diplomazia internazionale (forse anche quella di Trump) si aspetta che dopo la tregua incominci il vero processo di pace e ricostruzione di Gaza, per Netanyahu e il suo governo il conflitto dovrà invece riprendere. Per il premier la guerra permanente continua ad essere necessaria sia per ragioni ideologiche che per la sua sopravvivenza politica.

L’altro giorno il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi si è dimesso “per non aver saputo difendere i cittadini d’Israele” il 7 ottobre dell’anno scorso, quando Hamas attaccò il Sud del paese. Lo aveva annunciato da mesi. Ora, con la tregua, lo ha fatto. E’ stata la sua “bussola morale” a spingerlo. Non sembra che ne possieda una anche Netanyahu: come premier, dovrebbe essere il primo responsabile di quel disastro. La gracilità del suo spessore morale, intaccato anche da tre accuse per corruzione ed eccesso di potere, gli consentiranno di restare al potere per molto tempo ancora. A meno che non intervenga il volubile Donald Trump, il fantasma di Banquo di questo e altri conflitti.

 

 

 

  • carl |

    A quanto pare in CisGiordania ai “coloni” che giravano in borghese con l’Uzi o un altro mitragliatore a tracolla, si sono aggiunti anche i militari dell’esercito ebraico.. Insomma, un’altra versione “colonica” ben più numerosa, più armata e in mimetica..
    Guerra permanente? Che vengano ridotti in macerie, come a Gaza, anche i villaggi e le cittadine della Samaria e Giudea (come gli ebrei definiscono la CisGiordania)? Beh, se così fosse programmato, come potranno sopravvivere (e lavorare?) gli arabi-palestinesi ? Si dà per scontato che finiranno per cercare di emigrare/fuggire nella vicina Giordania e/o nella Siria “deBasharAbbasizzata e normalizzata”? Nello Stato ebraico rimarranno i milioni di arabi-palestinesi, più o meno e/o in qualche modo “integrati” e perfino con qualche seggio alla knesset? Sono interrogativi che possono emergere, pur non dimenticando che oltre a quella mediorientale, in questo nostro mondo ci sono anche altre (e ben altre) “gatte da pelare” e, magari, altre ancora in divenire..
    Infine, pensando tra gli altri casi, a quello citato in un commento concernente il post precedente, e cioè l’attacco e l’invasione dell’Irak ordinata e “giustificata” da Bush jr. sulla base di accuse inventate di malapianta, non sarei affatto stupito se qualche “dietrologo o plot-teorico” arrivasse ad affermare che i fattacci del 7 ottobre furono “permessi” per avere poi mano libera e pesante come per l’appunto è accaduto e sta ancora accadendo.. D’altronde, francamente parlando, più che il “capro” di stato maggiore Halevi, personalmente sono del parere che si sarebbe dovuto/si dovrebbe chiarire che cosa facevano gli addetti alla sorveglianza locale (e magari anche quella generale/satellitare/ecc. che sicuramente sono sempre attive ed all’erta da quelle parti) quando le milizie di Hamas “tracimarono”… No?

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