“We are very close to getting it done and they have to get it done. If they don’t get it done, there’s going to be a lot of trouble out there”. (Siamo molto vicini dal farlo e devono farlo. Se non lo fanno, laggiù avranno un sacco di guai).
Sembra Chuck Norris in una scena della serie tv Walker Texas Rangers. Invece è la riflessione sulla tregua a Gaza del presidente eletto degli Stati Uniti che lunedì tornerà in carica per i prossimi quattro anni. Una straordinaria sintesi della complessità della trattativa per fermare i combattimenti nella striscia e il massacro in corso; su come liberare tanti ostaggi israeliani per quanti prigionieri palestinesi, come e quando.
Implicitamente è anche una sintesi muscolare del più lungo e insolubile conflitto attualmente in corso. Probabilmente Henry Kissinger sarebbe stato più articolato e profondo. I professori dell’Università di Georgetown che preparano i diplomatici di carriera per il dipartimento di Stato, avrebbero aggiunto qualche citazione latina come era nella tradizione dei Padri Fondatori: George Washington si percepiva come il Cincinnato americano; John Adams, Thomas Jefferson e James Madison, il secondo, terzo e quarto presidente degli Stati Uniti, pensavano a Cicerone, Tito Livio e Catone mentre creavano le istituzioni americane sull’esempio della Roma repubblicana.
Ma nessuno sarebbe stato altrettanto chiaro quanto Donald Trump con il suo lessico cinematografico, per descrivere lo stato di una trattativa e le sue possibili conseguenze. L’esegesi delle parole del 47° presidente sembra un esercizio elementare. Tuttavia non lo è: le frasi sono prive di spessore, è vero, ma non rivelano quasi mai le vere intenzioni, sollevando un’eccitazione globale che neanche Chuck Norris – un fermo sostenitore di MAGA – saprebbe provocare.
Due settimane prima di rientrare alla Casa Bianca, Trump aveva illustrato con grande semplicità ciò che gli piacerebbe fare: annettere la Groenlandia, riconquistare il canale di Panama, trasformare il Canada nel 51° stato americano (aveva chiamato “governatore” il premier Justin Trudeau) e cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America. Una specie di programma di politica estera della nuova presidenza, subito derubricato in semplice provocazione dai governi amici e nemici, dalla stampa internazionale e dal comune sentire.
Il problema non è che Donald Trump lo voglia fare né che solo lo pensi, desiderandolo. Il dramma dei nostri prossimi quattro anni è che nel terzo decennio del XXI secolo il presidente della prima democrazia, del paese garante della sicurezza internazionale più di qualsiasi altro, senta ill bisogno di dire cose simili. Non escludendo l’eventualità di usare la forza per realizzarle.
In quale modo reagiremmo noi italiani se il prossimo cancelliere austriaco Herbert Kickl, di estrema destra, affermasse come Klemens von Metternich che l’Italia è solo un’espressione geografica? Sono molte le citazioni storiche che le dichiarazioni a raffica di Trump richiamano. Per esempio il Lebensraum, lo spazio vitale verso Est che il popolo germanico pretendeva di avere per diritto. Quella trumpiana sembra più la rivendicazione di un infinito spazio economico.
Il paragone con Adolf Hitler è probabilmente eccessivo. Ma non quello con Vladimir Putin e Xi Jinping. Il solo pensare di cambiare in quel modo la geografia dell’Occidente (il Canada è un membro Nato e la Groenlandia è parte dell’Unione Europea), automaticamente ridimensiona la gravità e invece giustifica l’aggressione russa all’Ucraina. E come si potrebbe negare alla Cina il “diritto” di conquistare la piccola isola di Taiwan, paragonandola all’estensione territoriale di Canada e Groenlandia?
Che fosse davvero o no la sua intenzione, Donald Trump ci ha già dato quanto meno l’indirizzo del suo programma di governo del mondo. Perché l’insistenza sull’isolazionismo dell’America durante la campagna elettorale non è stata che una forma completamente diversa da una tradizionale chiusura al mondo delle frontiere nazionali: è un modo riveduto e corretto di esprimere la tendenza imperiale connaturata in ogni superpotenza. Come Roma che fu così tanto importante nella creazione della democrazia americana, con Donald Trump Washington sta in qualche modo passando dalla repubblica all’impero.
Allego l’intervista pubblicata sul Sole 24 Ore la scorsa settimana
Ugo Tramballi
“Penso che la gran parte delle “minacce” di Vladimir Putin siano in realtà rumore, non vero pericolo: vuole ricordare che la Russia ha molte armi atomiche e che se la Nato volesse intervenire in Ucraina, la guerra diventerebbe nucleare”. George Perkovich studia i russi dai tempi della Guerra Fredda: in molte cose sono cambiati, in molte altre no. Vicepresidente della Carnegie, uno dei più importanti think-tank di Washington, Perkovich è fra i principali esperti di strategia e armi nucleari.
C’è stato un solo momento nel quale la minaccia nucleare è stata davvero reale: “Fu nell’ottobre 2022”, sostiene Perkovich. “In seguito i russi si sono convinti che avrebbero tenuto la Crimea e la gran parte dei territori presi nell’Ucraina orientale. Non c’era più “bisogno” di usare il nucleare”.
Tutti si chiedono cosa farà Donald Trump con gli alleati Nato, la Ue, l’Ucraina, la Cina e il Medio Oriente. Ma non come si servirà della potenza nucleare americana.
“E’ estremamente difficile prevederlo. Il presidente eletto non è un pensatore metodico né è molto coerente. Si considera un uomo d’affari che agisce per intuito. Questo lo rende imprevedibile e credo che ne sia compiaciuto”.
Secondo lei continuerà a difendere gli europei e gli altri alleati? Saremo ancora protetti dall’ombrello nucleare americano?
“E’ ragionevole aspettarsi che il Presidente e la gente che guiderà le istituzioni della sicurezza nazionale, comprendano che ogni cambiamento repentino debba essere condotto con attenzione e gradualità. Soprattutto se parliamo di difesa nucleare”.
Come aveva già fatto Barack Obama, anche Trump sostiene che gli alleati debbano dare un contributo maggiore alla comune difesa.
“Qui la priorità è la difesa militare convenzionale. Se gli alleati pagheranno una quota significativamente più alta, è ragionevole pensare che Trump accetterà di continuare a garantire la deterrenza americana. L’alternativa – l’America che abbandona i suoi alleati – sarebbe molto controversa e potrebbe spingere alcuni a creare le proprie armi nucleari. Il Presidente Trump non lo vedrebbe bene”.
In questo momento il mondo non è protetto da alcun trattato sul controllo e la riduzione delle armi nucleari. Ancora in vigore ci sarebbe solo il New START che limita le armi offensive strategiche: quelle testate che dovrebbe portare il missile ipersonico balistico Oreshnik, lanciato l’altro giorno sull’Ucraina. Ma da tempo i russi hanno sospeso la loro partecipazione allo START che, del resto, per funzionare avrebbe bisogno di una mutua fiducia, oggi inesistente. Che fine farà la deterrenza?
“Molto dipenderà se in Ucraina ci sarà un cessate il fuoco. E’ difficile immaginare che rinegozino il trattato fino a che la guerra continua. Ma non è solo questo: aggiornare il New START senza tener conto del crescente arsenale cinese, non avrebbe senso”.
Appunto, il silenzioso riarmo nucleare cinese.
“E’ giusto che lo definisca silenzioso. Il presidente Xi Jinping non ha intenzione di partecipare a qualsiasi negoziato sulla riduzione degli arsenali nucleari. Il resto del mondo dovrebbe averne spiegazione. Privatamente, i capi di governo, compresi gli italiani, dovrebbero chiedergli: a quali condizioni fermeresti il riarmo? E se non intendi farlo, spiega le tue intenzioni. Altrimenti Nato e alleati asiatici aumenteranno la loro deterrenza per bilanciare la tua minaccia”.
Già prima che la Corea del Nord mandasse soldati in Ucraina, molti esperti sostenevano che l’Occidente stia sottovalutando la sua minaccia nucleare. E’ davvero così pericolosa?
“Non so. Kim Jong Un sta chiaramente resistendo alla linea dura dell’attuale leadership Sud-coreana. Per Kim il programma nucleare è un deterrente. Stati Uniti, Giappone e altri alleati dovrebbero smettere di parlare di denuclearizzazione della Corea del Nord e negoziare una comune deterrenza. Credo che Trump, nel primo mandato presidenziale, abbia avuto il merito di aprire un dialogo con Kim ma la posizione americana mancava di realismo. Sarà diverso la prossima volta?”.