“Non è ufficiale ma è una guerra”, titolava il quotidiano Ha’aretz. Difficile fare una migliore fotografia del momento. Prima il lungo periodo di mutua deterrenza: israeliani ed Hezbollah libanese si sparavano ma tenendo a mente una linea rossa al di sotto della quale il confronto sarebbe rimasto una specie di litigio fra condòmini rissosi. Poi quello della diplomazia, mai decollato.
Ora c’è questo: la fase della evidente superiorità di una delle due parti, Israele. I cerca-persone esplosivi che hanno fisicamente accecato molti nemici e militarmente interrotto le linee di comando e controllo; l’eliminazione dei capi Hezbollah; i bombardamenti nel Sud del Libano che hanno ridotto l’arsenale missilistico della milizia sciita.
Fra i militari israeliani c’è qualche ottimista secondo il quale l’offensiva agevolerà gli americani nel negoziato attraverso Egitto e Qatar, sia con Hezbollah alla frontiera libanese che con Hamas a Gaza: dovrebbe spingerli al compromesso. Una speranza poco credibile: la flessibilità non è nella natura delle due organizzazioni terroristiche; e Israele dovrebbe fermarsi sia alla frontiera Nord che nella striscia. Non sembra sia questo l’obiettivo di Netanyahu e del suo governo.
Non esiste paese che accetti di vivere con una minaccia come Hezbollah alle sue frontiere. Ma dopo aver tentato l’arma della forza militare, la gran parte dei paesi cercherebbe altre vie. E’ ciò che lo stato ebraico fa molto raramente: quasi tutte le sue guerre hanno portato grandi vittorie militari ma nessuna soluzione politica ai problemi che avevano causato i conflitti.
Potrebbe accadere ancora: tentato dall’attuale debolezza di Hamas e di Hezbollah, e dal desiderio iraniano di non partecipare a una guerra aperta, Israele potrebbe continuare a bombardare Gaza, a combattere nella Cisgiordania occupata e ad avviare un’offensiva terrestre in Libano.
Sono scommesse pericolose. Thomas Friedman sul New York Times, scrive che una volta il Medio Oriente era fatto da solidi stati-nazione. Henry Kissinger incontrava i loro leader e raggiungeva compromessi. Oggi c’è un insieme caotico di stati falliti, stati-zombi e milizie con missili di precisione, nel quale il potere dell’amministrazione americana si smarrisce.
Negli anni ’70 Kissinger parlava con tutti. Dei quattro protagonisti della crisi di oggi – Israele, Hamas, Hezbollah e Iran – il segretario di Stato Antony Blinken solo con uno: Hamas ed Hezbollah, sono considerate organizzazioni terroristiche, l’Iran è un “paese canaglia”. Il successo di un negoziato dipende dal rispetto dei valori morali di chi lo conduce, ma anche da una dose di realismo.
Cinquecento morti in gran parte civili libanesi, in un solo giorno di bombardamenti, dimostrano che Israele applica la stessa logica di Gaza: l’unica cosa che conta è uccidere il nemico. Accusare i terroristi di farsi scudo della loro stessa popolazione, non attenua la colpa di chi comunque quella popolazione la bombarda.
Israele ha senza dubbio nemici pericolosi alle sue frontiere, e anche più lontano: Hamas, Hezbollah, Houthi, Iran. Ma in Medio Oriente non è più solo come una volta. E’ in pace o in buone relazioni con Egitto, Giordania, Emirati, Bahrein, Marocco, Qatar, Oman. Lo sarebbe anche con i sauditi se Israele avviasse una trattativa sullo stato palestinese.
L’Arabia Saudita non è più il paese di una volta che si teneva lontano dai conflitti della regione, distribuendo petroldollari a xestra e sinistra. I suoi investimenti economici per il futuro richiedono un Medio Oriente pacificato nel quale Israele partecipi con le sue tecnologie.
L’ “unica democrazia della regione”, come Israele si definisce, cerca invece l’integrazione sbagliata. Qualche giorno fa ha chiuso l’ufficio di al-Jazeera a Ramallah, capitale della Cisgiordania occupata. Non meno di elezioni e indipendenza del giudiziario, la libertà di stampa è uno dei pilastri sui quali si giudica la democrazia di un paese. Su questo, invece, Israele ha deciso d’integrarsi al Medio Oriente dell’egiziano al Sisi e di tutti quei regimi che non concepiscono un giornalismo critico.
In molti di quei paesi i giornalisti vanno in prigione o sono uccisi. E’ capitato anche ai palestinesi di Gaza. Prima della guerra, a Jenin, Shireen Abu Akle, di al-Jazeera, fu colpita a morte: volutamente, nonostante portasse il giubbotto anti-proiettile con la scritta “PRESS”. L’altra notte, nella redazione di Ramallah, gli israeliani hanno strappato da un muro la sua foto. Si dice che gli assassini non sopportino lo sguardo sorridente delle loro vittime.