Senza Hassan Nasrallah il Medio Oriente sarà un posto migliore. Forse. E’ un esercizio di ottimismo senza solidi postulati. Eliminare il capo assoluto di Hezbollah ha un peso psicologico importante ma il movimento sopravviverà – forse ha già un nuovo capo – e il conflitto continuerà.
Ogni volta che Israele uccide il leader di un’organizzazione terroristica, c’è sempre un successore, quasi sempre più radicale del predecessore. Ahmed Yassin, fondatore di Hamas fu ucciso nel 2004; qualche mese più tardi anche il successore Abdel Aziz al Rantisi fu eliminato. Oggi il potere politico e militare, un tempo bicefalo, è nelle mani di Yahya Sinwar, responsabile del massacro del 7 ottobre.
Anche prima di Nasrallah c’era un capo: Abbas al Mussawi, assassinato dagli israeliani nel 1992. E già dal 2008, su indicazione dell’Iran, c’è un successore: Hashim Safi al Din, fedelissimo non meno di Nasrallah del volere di Teheran. Uno dei suoi figli ha sposato la primogenita di Qassem Suleimani, il capo delle Forze Qods iraniane, ucciso dagli americani in Iraq nel 2020.
Senza il capo supremo, dopo la strage dei cerca-persona e la metodica eliminazione dei principali comandanti militari, un disorientato movimento potrebbe accettare quello che la comunità internazionale chiede: il rispetto della risoluzione Onu 1701 del 2006 che impone ad Hezbollah di ritirarsi oltre il fiume Litani, una trentina di chilometri a Nord della frontiera con Israele.
Quella fascia di sicurezza dovrebbe essere presidiata dall’Armée Libanaise, le forze armate molto più deboli delle milizie di Hezbollah, stato nello stato libanese. E’ difficile che accada: tunnel, arsenali, postazioni, villaggi militarizzati sono un vantaggio qualitativo e quantitativo al quale nessuna milizia rinuncerebbe.
Ed è anche una questione di orgoglio: mai Hezbollah aveva tanto subito da quando esiste, dal 1982. Anche per Israele è una questione di orgoglio e di opportunità: mai aveva inferto simili colpi al nemico, mai la milizia sciita libanese era apparsa tanto debole. E’ dal 2006, dall’ingloriosa guerra con Hezbollah, che gli strateghi preparano la rivincita: per 18 anni era il Libano la vera minaccia per Israele, prima che Hamas facesse la sua sanguinosa sorpresa a Gaza.
La tentazione di eliminare Hezbollah dalla frontiera Nord è così forte da far dimenticare che dopo un anno di guerra Hamas, molto più debole, è ancora a Gaza. “La campagna a Nord deve finire con un solo scenario: distruggendo Hezbollah e fermando la sua capacità di danneggiare i residenti del Nord”, sostiene Bezalel Smotrich, il ministro estremista del governo Netanyahu. Le stesse radicali soluzioni pretese ma non raggiunte a Gaza.
Sul piano dell’intelligence, delle tecnologie e delle forze aeree Israele è imbattibile. Ma un’offensiva terrestre nel Sud del Libano potrebbe essere un’altra cruenta delusione.
Prima del 7 ottobre un’università israeliana aveva condotto un war game. La simulazione di conflitto prevedeva che Hezbollah lanciasse 2.500/3.000 missili al giorno per alcune settimane. Dopo i primi giorni gli intercettori come Iron Dome erano diventati inutili. I danni inflitti in questi giorni dall’aviazione israeliana sono notevoli ma l’arsenale di Hezbollah resta formidabile.
Un anno di guerra a Gaza è costoso in termini di logorio umano e dei mezzi. “Date le aspettative che una guerra in Libano non sarebbe limitata nei tempi, scopi e geografia, nessun militare vorrebbe aprire un secondo fronte con un livello operativo così basso”, scrive Dona Stoul, ex assistente del segretario alla Difesa Lloid Austin e direttrice al Washington Institute, un centro studi molto vicino a Israele.
Ma Teheran sta al movimento sciita molto più di quanto Washington stia a Israele: Nasrallah non poteva ignorare la volontà degli iraniani; Bibi Netanyahu ignora quotidianamente le esortazioni di Joe Biden. Come è ovvio ora c’è un linguaggio di guerra. Ma i segnali che per mesi ha mandato l’Iran e il discorso all’Onu del nuovo presidente Mahmud Pezeshkian, fanno intuire un Iran diverso da quello banalmente retorico descritto da Bibi Netanyahu sullo stesso podio di New York.
E’ ai limiti dell’impensabile che l’Iran possa contribuire a un’attenuazione del conflitto: i militaristi continuano ad avere un grande potere dentro il regime. Ma con Pezeshkian gli Stati Uniti non dovrebbero perdere l’ennesima occasione di guardare all’Iran del nuovo presidente, come a un possibile interlocutore.