Potrebbe sembrare un allargamento della guerra di Gaza: un nuovo fronte aperto dalle operazioni israeliane in Cisgiordania, conseguenza degli scontri nella striscia, dopo il Libano, l’Iran e gli Houtih dello Yemen.
Un metodo Gaza effettivamente c’è: la brutalità dell’intervento che dimostra la crescita israeliana dell’odio verso i palestinesi, dopo l’aggressione di Hamas del 7 ottobre dell’anno scorso; il disinteresse per gli effetti collaterali, pur di raggiungere l’obiettivo militare prefissato. In questi giorni più di un ministro israeliano ha proposto d’imporre, come a Gaza, l’allontanamento dei civili dalle città attaccate: un evidente desiderio di espulsione.
In realtà la Cisgiordania non è un nuovo fronte ma IL fronte del conflitto fra israeliani e palestinesi. Per le dimensioni della catastrofe umanitaria, Gaza ha solo tolto la scena ai Territori occupati: cioè la West Bank, la riva occidentale del Giordano occupata da Israele nel 1967 e da allora edificata da centinaia di colonie ebraiche. Ma Tulkarem, Jenin, Nablus, Hebron, Betlemme e i villaggi agricoli palestinesi, sono campi di battaglia da molto prima che Gaza esplodesse.
Nel 2005 Ariel Sharon aveva smantellato tutti gli insediamenti ebraici nella striscia e qualcuno anche in Cisgiordania. L’ex generale, allora premier, non era di sinistra, ancor meno un pacifista. Tuttavia aveva d’Israele un’idea laica: uno stato più piccolo ma demograficamente compatto avrebbe salvato la sua essenza ebraica e la sua democrazia.
E’ l’esatto contrario di ciò che pensano Bibi Netanyahu e il governo di estrema destra nazional-religioso che guida. I suoi ministri peggiori, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, credono di avere una missione divina da svolgere e della democrazia non hanno dimestichezza.
Prima che Yahya Sinwar, il leader di Hamas, attaccasse il 7 ottobre, Gaza era un discorso chiuso per i nazionalisti israeliani. Aperta e concreta era invece la moltiplicazione delle colonie in Cisgiordania, l’annessione dei Territori, l’espulsione o la chiusura dei palestinesi in bantustan isolati, simili a quelli creati nel Sudafrica dell’apartheid. Da quando è al potere questo governo si sono moltiplicati gli attacchi israeliani alle città palestinesi. Nel 2023 il bilancio di morti e feriti degli scontri era stato più grave di quelli negli anni della seconda Intifada.
Senza un orizzonte diplomatico per uno stato indipendente, chiusi nelle loro gabbie urbane, perseguitati e arrestati, aggrediti dai coloni sempre più armati dal governo: per le organizzazioni terroristiche come Hamas e Jihad non è stato difficile arruolare giovani senza speranze. Il governo israeliano ha allargato all’intera popolazione palestinese la definizione di terrorista: un bambino di 11 anni che scaglia una pietra contro una jeep blindata, è un terrorista.
Durante la seconda Intifada, nel primo decennio di questo secolo, Israele aveva costruito una “barriera di separazione”. E’ un muro orribile, edificandolo è stata rubata altra terra ai palestinesi. Ma da che esiste non ci sono più stati i sanguinosi attentati suicidi contro i civili che avevano contribuito a far fallire il processo di pace di Oslo. Perché un kamikaze palestinese carico di tritolo riesca a passare, gli israeliani devono essere molto distratti (in questo ultimo decennio non lo sono mai stati) o lo devono volere.
L’obiettivo della grande operazione militare di questi giorni era eliminare le basi logistiche dalle quali era venuto l’attentatore che la settimana scorsa era saltato in aria col suo carico a Tel Aviv: senza fare vittime, forse per un malfunzionamento dell’innesco.
“Vogliono che il sistema perda il controllo, causando un indescrivibile danno a Israele”, ha scritto la settimana scorsa Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni. Non si riferiva a Hamas ma agli estremisti nazional-religiosi israeliani che stanno conquistando un potere crescente.