Le elezioni americane ormai incombono, la pandemia aumenta di nuovo con i suoi aspetti sanitari ed economici. Uno alla volta, Lukashenko sta picchiando e arrestando tutti i bielorussi in abiti civili. Ogni giorno di più la Ue è chiamata a determinare il suo destino: se diventare finalmente una potenza mondiale sotto tutti gli aspetti o restare nel suo placido anonimato geopolitico, una specie di dopolavoro per 27 paesi sovrani.
E’ comprensibile che l’annuale Assemblea generale delle Nazioni Unite, al palazzo di vetro di New York, sollevi scarso interesse. Fatti più impellenti attirano la nostra attenzione. Quando parliamo di Onu, cercando di comprenderne l’utilità, ci accontentiamo di dire che senza, il mondo sarebbe un posto peggiore: ci consoliamo e passiamo ad altro. Dag Hammarskjold, il secondo segretario generale, l’aveva raccontata meglio: “L’Onu non è stata creata per portare l’umanità in paradiso ma per salvarla dall’inferno”. Nonostante l’Organizzazione, nei 75 anni da che esiste, ampie porzioni di umanità hanno visto e continuano a vedere l’inferno.
L’Assemblea generale viene vista da molti come una fiera delle vanità degli associati. Per la stragrande maggioranza dei leader dei 193 stati membri – quelli che non contano – parlare al podio vale solo un ampio servizio sui notiziari tv di casa. Ma è una valutazione riduttiva. Per spiegarsi con l’audience del Midwest, il corrispondente all’Onu per la Cnn Richard Roth, qualche anno fa l’ha definita “il Superbowl della diplomazia”. Si riferiva alla finale del football americano. In una spiegazione un po’ più profonda, un ambasciatore decano dell’Onu sosteneva che l’Assemblea generale è “un caos creativo”.
Eccoci al punto di questo post. In realtà è sbagliato pensare che la settantacinquesima edizione dell’Assemblea sia stata una breve nei notiziari internazionali, una spigolatura sul mondo rispetto a cose più importanti, un atto dovuto e archiviabile della diplomazia. L’Assemblea generale di quest’anno è stata invece la drammatica summa del mondo in cui viviamo. Nelle dichiarazioni dei protagonisti della scena globale c’erano tutti i problemi che ci preoccupano – le presidenziali americane, il Covid, la crisi economica, la nuova guerra fredda, l’assalto alla democrazia- mostrando quanto la nostra epoca sia pericolosa.
L’Assemblea era un “caos creativo” perché i leader la sparavano grossa sul podio (il caos) ma poi s’incontravano a quattr’occhi per discutere seriamente su ciò che li divideva (la creatività). Quasi sempre l’incontro annuale a New York produceva una gigantesca rete di colloqui bilaterali spesso sconosciuti al pubblico, che esaltavano il ruolo della diplomazia.
Ma quest’anno a causa della pandemia gli interventi sono stati virtuali: tutti hanno parlato da casa, anche nel senso di pro domo mea. C’è dunque stato il caos ma non la successiva creatività dei colloqui in carne ed ossa.
In queste arene per gladiatori il più bravo è sempre Donald Trump, il cui discorso è stato un comizio elettorale nel quale la diplomazia non serve. Ha promesso l’imminenza di “un’era di prosperità senza precedenti”. Nell’attesa, la Cina dovrà “rendere conto” della piaga del Covid. Cercando faticosamente di distinguersi per moderazione (non è nella sua natura) Xi Jinping ha risposto con lo stesso tono.
Colpito dalla durezza dello scontro, il segretario generale Antonio Guterres è stato costretto a un intervento fuori programma nella sala semi vuota dell’Assemblea: “Ci stiamo muovendo in una direzione molto pericolosa. Non ci possiamo permettere un mondo nel quale le due economie più grandi dividono il globo in una grande frattura”. Emmanuel Macron ha ribadito il concetto: “Il mondo non può essere lasciato in balia della rivalità fra Stati Uniti e Cina”.
In un articolo in prima pagina, il Financial Times sintetizza lo stato economico del mondo, causa pandemia: i redditi dei lavoratori sono calati di 3.500 miliardi di dollari che equivalgono a 500 milioni di posti perduti; il Pil globale è già calato del 5,5%. E non è ancora finita. Nelle emergenze i leader mondiali reagiscono in due modi: trovano le ragioni per combattere insieme il Grande Nemico o ne approfittano per conquistare il primato a scapito degli altri. Tutto lascia credere che questa volta stia prevalendo la seconda opzione.
Nel suo discorso da remoto la durezza di Trump ha fatto passare Xi per il buono di questa storia, nonostante l’evidenza che non lo sia affatto. A Trump basta rivincere le elezioni per rendere grande l’America (così dice lui) in America: le sue sono ambizioni isolazioniste. Xi sta facendo grande la Cina nel mondo: la sua ambizione non ha limiti.
Tuttavia, ciò che più mi ha colpito del discorso del presidente americano è il passaggio nel quale ha invitato i suoi colleghi, tutti potenziali nemici, “to put their countries first”. Sovranismo globale, ognuno per se, è la sua cosiddetta dottrina: come nel 1914 e nel 1939.