Palestine dreamin’

osloSiete l’unico movimento di liberazione al mondo capace di dedicare più tempo alle lotte fratricide che a combattere il suo nemico, aveva detto ai colleghi dell’Olp Saud al-Faisal, in un vertice della Lega Araba. Fino alla sua morte nel 2015, il figlio di re Faisal aveva guidato per quarant’anni con grande moderazione la politica estera saudita: era raro che uscisse dai canoni della diplomazia per dire apertamente quel che pensava. Gli altri colleghi arabi non dissentirono dal suo franco rimprovero ai palestinesi.

Possiamo cercare ed effettivamente trovare numerosi peli nell’uovo nel duplice accordo di pace fra Israele, Emirati e Bahrain. Per esempio che alla Casa Bianca ci fossero il presidente degli Stati Uniti e il Primo ministro israeliano ma non il vero uomo forte degli Emirati, Sheikh Mohammed al Maktoum né il re del Bahrain Hamad al-Khalifa: i due paesi erano rappresentati dai ministri degli Esteri. Il tempo dirà se sono solo vantaggiosi accordi economici o anche politici e se altri paesi seguiranno.

Ma è un’altra la cosa più evidente che emerge da quella cerimonia alla Casa Bianca dove Bibi Netanyahu ha cercato d’imitare Yitzhak Rabin, in quello stesso luogo nel 1993, alla firma degli accordi di Oslo (scopiazzandone maldestramente anche il discorso): è l’isolamento e il tragico fallimento dei palestinesi.

La Palestina resta un sogno. Ci sono altri paesi arabi che stanno soppesando vantaggi e ostacoli nel seguire Emirati e Bahrain. L’Arabia Saudita non lo farà ma i paesi che lo hanno fatto e quelli che ci stanno pensando sono suoi clientes. Non lo farebbero senza il via libera di Riyadh.

Il cammino del movimento nazionale palestinese è pieno di atti d’eroismo, massacri e colossali errori politici: tattici e strategici. A partire dagli anni ’20 gli ebrei di Palestina avevano incominciato a costruire gli elementi di uno stato: un inno e una bandiera, scuole, industrie, banche, sindacati, polizia e un esercito clandestino. I palestinesi niente di tutto questo, dilaniandosi su chi dovesse guidare la lotta, fino a quando non prese il sopravvento l’ala estremista del Gran Muftì.

Quando scoppiò la guerra del 1947/48 la causa palestinese fu utilizzata dai paesi arabi circostanti per i loro obiettivi: il più importante era spartirsi la Palestina. L’unico alla fine capace di resistere agli israeliani, re Abdullah di Transgiordania, non liberò ma annesse Cisgiordania e Gerusalemme Est. La prima lotta di liberazione che i palestinesi dovettero combattere fu contro i presunti protettori. Scorse molto sangue per imporre al mondo arabo il diritto palestinese all’indipendenza: il Settembre nero del 1979 in Giordania, la guerra civile in Libano, gli attentati, il sanguinoso frazionismo delle troppe organizzazioni palestinesi.

Tutto questo ha garantito l’attenzione preoccupata del mondo arabo, non la sua sincera adesione alla causa. L’accusa di Saud al-Faisal al vertice della Lega Araba era anche un frutto dello storico scarso entusiasmo per la causa palestinese. Oggi i fedaiyyn non fanno più paura a nessuno. Forse non li ricorda più nessuno: se digitate il singolare, “fedayn”, l’intera prima pagina di Google è dedicata agli ultras della Roma. Fra il 16 e il 18 settembre del 1982 i maroniti cristiani libanesi protetti dai soldati israeliani, massacrarono i palestinesi in gran parte civili, dei campi di Sabra e Shatila, a Beirut. Farete fatica a trovarne un ricordo, da qualche parte. In Medio Oriente altre emergenze hanno superato la mancata soluzione della causa palestinese. E altri peggiori massacri ne hanno oscurato la memoria.

Ma dalla fine degli anni ’80 fino a un decennio fa, c’è stato un lungo periodo di dialogo e diplomazia. Il primo ad offrirlo fu al Fatah, il partito di Arafat, non gli israeliani. Ma con attentati e omicidi, le fazioni palestinesi avversarie fecero fallire i primi tentativi. E poi c’erano gli israeliani: fra alti  e bassi, laburisti o del Likud, la maggioranza relativa (spesso di più) non ha mai voluto la nascita di uno stato palestinese.  Questo scoglio in parte ideologico, in parte d’istintiva sfiducia, Arafat non è mai stato capace di infrangerlo. I suoi successori non sono stati migliori: hanno continuato ad affermare le premesse degli accordi di Oslo, anche quando Israele e il mondo attorno a loro stava drammaticamente cambiando. Hanno sempre detto di no, anche a un paio di offerte vantaggiose data la situazione (Ehud Olmert e John Kerry), ignorando che ogni piano di pace è figlio del compromesso non della perfezione.

In un certo senso Emirati e Bahrain hanno preso una strada diversa da quella di Oslo che è fallita. Perché non provarci? Cercando di essere ottimista – con grande fatica e molte perplessità – ho letto i due accordi di pace. Quello firmato dagli Emirati dice “…impegnati a lavorare insieme nel realizzare una soluzione negoziata del conflitto israelo-palestinese, che incontri i bisogni legittimi e le aspirazioni dei due popoli”.  Quello con la firma del Bahrain aggiunge “…e continuando gli sforzi per conseguire una giusta, completa e duratura soluzione del conflitto israelo-palestinese”. E’ un impegno sufficiente? Bibi Netanyahu dimostrerà di essere il leader pragmatico capace di preferire una pace all’annessione dei territori occupati? I suoi due predecessori del Likud al governo, Menahem Begin e Ytzhak Shamir, non lo fecero. Mi sento di dire che neanche questa volta uno stato palestinese sia imminente.

Nel settembre del 1993 ero a Washington a seguire la firma degli accordi di Oslo. Come quelli degli altri giornalisti di tutto il mondo, anche i miei resoconti erano pieni dell’aggettivo “storico”. Sappiamo come andò a finire. Per l’esperienza maturata in troppi anni passati al seguito di questa tragedia, non definirei storiche le firme dell’altro giorno alla Casa Bianca. Meglio aspettare.

 

http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/

 

 

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