Ogni volta che torno a Hong Kong, anche a distanza di poco tempo, ci vuole sempre un po’ per orientarsi. Ci sono un paio di grattacieli che tre anni prima non esistevano; le draghe hanno rubato al mare ancora un po’ di baia per altri investimenti, altri progetti, altre gru al lavoro. Il panorama fisico e umano è in continuo movimento.
Le corniches del Cairo sul lungo Nilo, invece, sono uguali dalla prima volta che vi ho camminato, ormai quarant’anni fa. In Medio Oriente il panorama non cambia mai e se cambia non punta verso l’alto ma il basso: verso il suolo, precipitato dai bombardamenti di guerre che non portano a nessuna pace ma creano le condizioni per il conflitto successivo.
Hong Kong, dove sono tornato per seguire l’Asian Financial Forum organizzato dal Trade Development Council locale, è uno degli specchi sui quali si riflette l’immagine di un Estremo Oriente in continua espansione da qualche decennio. Singapore sembra finta, tanto è perfetta e ordinata; Seul, Hanoi, Kuala Lumpur, Jakarta sono alveari produttivi. In Cina non solo il cambiamento di Shangai è forsennato: molti in America ed Europa non sanno nemmeno che esiste una città chiamata Chengdu, la capitale del Szechuan, diventata ormai più grande di New York.
Questa mattina al forum di Hong Kong il giapponese Takejiko Nakao, il presidente dell’Asian Development Bank, ha ricordato che nel 1990 l’economia del continente era il 20% di quella mondiale. Nel 2050 sarà più della metà. Nella sua somma Nakao metteva tutta l’Asia, comprese le zavorre del Medio Oriente asiatico e dell’Asia meridionale. Se contiamo solo l’Estremo Oriente, parliamo di una economia da 20mila miliardi, maturati senza il ricostituente degli idrocarburi dei quali l’Asia del Golfo arabico fa largo uso per spiegare la sua crescita e la grande liquidità di cui dispone.
La metà delle imprese internazionali della lista Fortune 500 operano in Estremo Oriente e da qualche giorno è ufficiale: la Cina è diventato il primo trader al mondo, superando per la prima volta gli Stati Uniti. Fra importazioni ed esportazioni nel 2013, ha fatto più di 4mila miliardi di dollari. E il Fondo monetario conferma che quest’anno la crescita complessiva di Cina e del resto dell’area sarà del 7,6%. In Europa, se saremo disciplinati e fortunati, faremo l’1,1 quest’anno e l’1,15 nel successivo.
Se parliamo dell’Asia che cresce e per la quale la grande crisi finanziaria non è stata che un rallentamento perfettibile e temporale del suo camino, non c’è che l’imbarazzo della scelta fra le cifre che ne testimoniano il successo. Eppure, per certi versi, tutto il mondo è Paese. Anche l’Estremo Oriente ha le sue debolezze che non sono i rischi legati all’eccessiva crescita del debito cinese o alla capacità di Hong Kong di cambiare pelle economica per restare sempre sulla prima linea della modernità.
No, è qualcosa di molto antico e molto banale come la guerra. La regione al mondo che più di ogni altra ha colto gli aspetti della globalizzazione, che più commercia dentro e fuori la sua stessa regione di competenza, non ha una struttura multilaterale di sicurezza: non c’è una Nato che stabilisca il quadro della sua difesa comune né un’organizzazione integrata come la Ue che abbia fatto evaporare i miasmi dei vecchi conflitti e dei nazionalismi. Cina e Giappone, Vietnam e Cina, Corea del Sud e del Nord potrebbero entrare in guerra l’uno contro l’altro per il possesso di un isolotto, prima che un forum di mediazione regionale li possa spingere a negoziare. Tutto solo per un‘idea malata di orgoglio nazionale come quella delle potenze europee nel 1914. Perché diversamente dal Medio Oriente, dove l’uso politico di Dio è il maggiore elemento di destabilizzazione, quaggiù la religione quasi non esiste come scienza politica.