Non c’è solo Bibi Netanyahu a temere di restare isolato dagli ultimi eventi, piuttosto straordinari, in Medio Oriente (di seguito allego il commento sulla visita a Roma del premier israeliano, che dopo la notizia di Angela Merkel spiata dagli americani, per motivi di spazio non è stato pubblicato sul Sole). Molto più di Israele, e in maniera alquanto scomposta, l’Arabia Saudita denuncia ormai apertamente il “tradimento americano”.
Prima il rifiuto di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu, mentre a New York Barack Obama cinguettava con l’iraniano Hassan Rohani. Poi quello di occupare il seggio a rotazione del Consiglio di sicurezza, che gli spetterebbe per due anni. Intanto la stampa saudita che non è famosa per la sua autonomia di giudizio dalla casa reale, si è lanciata in un anti-americanismo che fino a un paio di mesi fa solo i giornali iraniani praticavano con pari veemenza.
Cerchiamoci un altro alleato, è il tono del bombardamento mediatico a Riyadh. Stampa e potere sanno che nessuno può sostituire un alleato come gli Stati Uniti scelti nel 1932 da re Abdul Aziz invece degli inglesi, perché allora gli americani non avevano ambizioni imperialiste. Nessuno al mondo può garantire la sicurezza e la protezione militare che l’America offre ai re e agli emiri del Golfo. Nemmeno se lo shale oil del Wyoming garantisse autosufficienza energetica gli Usa rinuncerebbero a questa priorità strategica. Anche qui i sauditi sono come gli israeliani, volutamente miopi: qualsiasi altra cosa facciano, gli americani non abbandoneranno mai l’Arabia né Israele.
Perché dunque una diplomazia tradizionalmente
cauta e riflessiva ha incominciato a gridare slogan da rivoluzione populista? Gli
scricchiolii sono incominciati quando Obama scaricò Hosni Mubarak e sono
diventati smottamento quando il presidente ha poi sostenuto i Fratelli
musulmani egiziani. Nell’ultima crisi fra i militari e la fratellanza, gli
Stati Uniti avevano chiesto all’Arabia Saudita di moderare il generale al Sisi.
Invece si è scoperto che i suoi emissari avevano istigato i militari a eliminare
i Fratelli musulmani.
La decisione americana di non bombardare più
la Siria, di eliminarne l’arsenale chimico per via negoziale con la Russia, e
di tentare il disgelo con l’Iran, sono state per i sauditi qualcosa di simile a
un atto di guerra.
Davanti ai mutamenti – 65% pericolosi, 35
promettenti -delle cosi dette Primavere arabe, l’Arabia Saudita è simile a
Israele. Manca di creatività. La rigidità di entrambi è per così dire ideologica,
anche se le ragioni non sono strettamente tali.
La lente attraverso la quale Israele analizza
qualsiasi cosa accada, è sempre la questione palestinese che è anche questione
israeliana: la nascita o meno di uno Stato palestinese determinerà le frontiere
definitive di Israele e l’accettazione o il rifiuto della sua presenza nella
regione.
Per l’Arabia Saudita, oltre all’aspetto
geriatrico della sua classe dirigente portata anche per ragioni anagrafiche a
mancare di flessibilità, la questione è religiosa: lo scisma millenario con gli
sciiti e la concorrenza con i Fratelli musulmani nel mondo sunnita.
L’appoggio ai militari egiziani è stato
impetuoso. Si può chiamare vittoria sulle cautele americane: ma è ancora da
vedere quale stabilità raggiungerà un Egitto che ha espulso con la forza l’Islam
politico.
Riguardo al capitolo Siria/Iran, difficile
non chiamarlo sconfitta. L’avversione per i Fratelli musulmani siriani ha
indebolito il fronte delle opposizioni e rafforzato l’estremismo qaidista.
Qualcosa di simile sta accadendo in Libano dove i sunniti moderato di Saad
Hariri, protégé della monarchia saudita, vengono scalzati da un Islam
particolarmente radicale.
L’insistenza per il bombardamento della Siria
quali fossero le conseguenze, è stata devastante per il ruolo saudita nella
regione. Come sostenevano i francesi, non si poteva restare inermi a guardare mentre
Assad massacrava il suo popolo e nel Consiglio di sicurezza russi e cinesi
dicevano “no” a prescindere. Ma l’Arabia Saudita ha continuato a sostenere l’intervento
militare anche dopo che la sola minaccia di bombardamento aveva sortito effetti
insperati: lo smantellamento dell’arsenale chimico del regime.
Se mai la trattativa con l’Iran porterà
all’eliminazione della minaccia nucleare nella regione, l’Arabia Saudita si
troverà drammaticamente isolata. Isolata nel suo fortilizio petrolifero pieno
di contraddizioni: una successione dinastica incerta, una gioventù che chiede
cambiamenti, un radicalismo religioso militante sempre più pericoloso.
Netanyahu a Roma
Cosa
è più urgente da risolvere: il problema del nucleare iraniano o di uno Stato
per i palestinesi? E quale dei due è più pericoloso, se lasciato senza una
soluzione? In realtà le due questioni sono ormai legate. Come ha detto Bibi
Netanyahu a Enrico Letta, il modo in cui sarà risolta la questione del nucleare
in Iran avrà un impatto sulla trattativa fra israeliani e palestinesi. Priorità
e legami, sono dunque stati indicati. E come d’abitudine, per Israele c’è
sempre qualcosa di più urgente di uno Stato palestinese.
Quando va all’estero, è presumibile parli di
scambi economici il premier di un Paese che produce più di 500 startup l’anno,
con una crescita del Pil prevista nel 2013 al 3,9% e un’espansione dell’1,20
fra il primo e il secondo quarto dell’anno (nessun Paese occidentale cresce
tanto). Ma il Paese è Israele, circondato dai conflitti; e il suo primo
ministro è Bibi Netanyahu, il campione della risposta muscolosa a quei
conflitti.
Con il presidente del consiglio Letta martedì
sera si era parlato anche di economia: ma soprattutto del boicottaggio ai beni
israeliani prodotti nei Territori palestinesi occupati, che la Ue ha approvato
all’unanimità e presto dovrebbe entrare in vigore. L’economia degli
insediamenti garantisce 550 milioni di euro l’anno, secondo l’ultimo rapporto
della Banca Mondiale sulla Palestina, almeno 230 dei quali vengono dalle esportazioni
in Europa.
Perché sempre di pace, guerra ed economia di
guerra alla fine si parla. La parte più importante della visita di Netanyahu a
Roma è stata il lungo incontro con John Kerry: sette ore programmate ed
effettivamente spese dal segretario di Stato americano per capire quanto e fino
a dove il premier israeliano è pronto a investire. Un investimento politico,
evidentemente: quali concessioni Netanyahu è intenzionato a fare perché la
trattativa in corso possa raggiungere qualche successo concreto. Nella passata
settimana i negoziatori avevano intensificato i loro incontri: gli israeliani
Tzipi Livni e Isaac Molho, e i palestinesi Saeb Erekat e Mohammed Shtayyeh si
vedono ormai ogni giorno.
Manca il balzo in avanti che solo i leaders
possono dare. Bibi Netanyahu lamenta che sia Abu Mazen, il presidente
palestinese, a rifiutarsi di farlo; Abu Mazen naturalmente il contrario. Delle sette ore a Roma, quattro Kerry e
Netanyahu le hanno trascorse a tu per tu, senza consiglieri. Secondo lo staff
del premier israeliano si è discusso soprattutto di trattativa con i
palestinesi. Secondo fonti americane Kerry ha illustrato all’israeliano i primi
risultati della trattativa con l’Iran e lo ha esortato, anche con una certa
energia, a fare le concessioni che gli Stati Uniti e la comunità internazionale
gli chiedono di fare ai palestinesi: prima di tutto congelare la costruzione di
case negli insediamenti ebraici, non pretendere il controllo militare
israeliano sine die della valle del Giordano e delle frontiere con la Giordania.
Netanyahu vuole che i palestinesi riconoscano
l’essenza ebraica dello Stato d’Israele (che sottintende la rinuncia
palestinese al diritto al ritorno dei profughi nelle terre che oggi sono
Israele) e la presenza militare nella valle del Giordano “per evitare che la
Palestina si trasformi in un piccolo Iran ai nostri confini”. Secondo Mohammed
Shtayyeh, negoziatore e ministro della Ricostruzione, l’obiettivo palestinese è
economico. L’Autorità palestinese esporta solo per 15 milioni di euro l’anno
nella Ue, “la soluzione non è solo comprare più prodotti palestinesi o bandire
quelli degli insediamenti ma permettere alla Palestina di controllare le sue
frontiere per importare ed esportare senza le restrizioni israeliane”.
Nucleare iraniano e negoziato sulla Palestina
sono effettivamente legati, che Israele ne faccia un uso politico o no. Quando
denuncia il pericolo di una bomba iraniana e i rischi di un appeasement fra
Barack Obama e Hassan Ruhani, Bibi è convinto – e non ha torto – di non essere
la sola Cassandra al mondo: con lui ci sono molti arabi, soprattutto i sauditi
e gli emiri del Golfo.