Negli auguri di Natale di Abdullah di Giordania (che tutti gli anni anche io con piacere ricevo), ci sono due foto separate. Nella prima il re, la regina Rania e i tre figli più piccoli. Nella seconda il principe Hussein, 18 anni, il primogenito. E’ la prima volta che il giovane Hussein è da solo, in un’istantanea con il ritratto del nonno Hussein ben visibile alle sue spalle, come per marcare la linea di successione nella Casa di Hashem.
Non è un caso, per quanto sia noto che l’erede al trono, nominato tale nel 2009, sia lui. Le cose si fanno difficili in Giordania. Alla Palestina lungo la frontiera occidentale e all’Iraq a Est, si è aggiunta a Nord anche la Siria. I problemi della regione si affollano ai confini del piccolo regno.
La Giordania è un Paese di profughi. I palestinesi con cittadinanza quasi piena, sono il 70% della popolazione: anche Rania è una palestinese, i suoi genitori sono di Tulkarem. Gli immigrati iracheni sono un milione e i profughi siriani probabilmente 200mila. Non è poco in un Paese con poco più di cinque milioni di abitanti e senza le risorse naturali di molti vicini.
All’instabilità geopolitica, cronica per la Giordania, si aggiunge una crisi economica che non dipende dai profughi ma principalmente da una stagnazione sociale alla quale non si pone rimedio. Da anni si attendono riforme democratiche, anche in senso economico, che il re promette ma non riesce a realizzare. A gennaio ci saranno nuove elezioni parlamentari che, ancora, i Fratelli musulmani locali boicotteranno. Se il voto fosse veramente aperto come in Egitto e Tunisia, conquisterebbero la maggioranza anche in Giordania. Ma l’attuale divisione delle circoscrizioni elettorali, che favorisce le tribù e la borghesia urbana molto ricca e molto poco trasparente, impedisce loro di vincere.
“Un leader che spara sulla sua gente perde il
diritto di governare”, mi aveva detto Hussein la scorsa primavera, dopo aver
invitato il suo ex amico Bashar Assad a dimettersi. “Io non armerò mai la mia
polizia”. In effetti nei disordini di novembre ad Amman e in altre città, molti
manifestanti erano stati arrestati (e poi rilasciati): ma nessuno aveva
sparato.
Il problema è che questo non basta – o da un
paio d’anni non basta più – per conservare la fiducia del proprio popolo.
Occorrono riforme democratiche e sociali che Abdullah non riesce a imporre:
credo sia una questione di possibilità più che di volontà. “Appena propongo una
riforma ricevo molte telefonate importanti da Riyadh”, mi aveva ancora detto il
re, sorridendo. Nelle difficoltà geopolitiche della Giordania c’è infatti anche
l’Arabia Saudita dalla quale il regno hashemita non può prescindere a partire
dall’aiuto economico. E’ difficile riformare la Giordania, ancor meno
immaginare una monarchia costituzionale, alle porte della penisola arabica
dominata dai sauditi.
Ma ai palestinesi che sono la maggioranza
senza alcuna possibilità che questa sia numericamente rappresentata anche in
Parlamento, ora si somma la crescente sfiducia delle grandi tribù beduine. Gli
Howeitat, i Beni Sakhr, i Beni Hamida, i Gharaibeh, gli Harahsheh sono sempre
stati il principale pilastro di sostegno della monarchia hashemita. Ora
Abdullah incomincia a perdere il loro appoggio.
Nelle manifestazioni di Amman c’è chi ha
lanciato slogan per abbattere la monarchia: non è da molto tempo che i partiti
di sinistra palestinese e della borghesia giordana hanno riconosciuto gli
hashemiti come i legittimi sovrani. Ma è difficile pensare che cada la
monarchia. Che invece Abdullah possa essere costretto ad abdicare, è
un’eventualità possibile.
Il successore di re Hussein era Hamzah,
figlio di Noor, l’ultima moglie (nella foto che accompagna questo post si
vedono il principe Hussein e alle spalle lo zio Hamzah). Nel 1999, nella fase
terminale della sua malattia, Hussein aveva chiesto al fedelissimo fratello
Hassan di prendere in mano il regno in attesa che Hamzah raggiungesse la
maturità per governare. Onestamente Hassan gli disse che se fosse diventato re,
la linea di successione sarebbe stata la sua. Per questo Hussein scelse
Abdullah, il primo figli maschio avuto dalla seconda moglie, l’inglese
Antoinette Gardiner. Abdullah scelse Hamzah come principe ereditario ma nel
2004 lo dimise dal ruolo, scegliendo cinque anni dopo come erede il figlio
Hussein II, ora diciottenne.
Sauditi e Qatar non hanno mai nascosto la
simpatia per Hamzah che a 32 anni avrebbe l’età giusta per succedere al
fratellastro. Anche le tribù si troverebbero più a loro agio con il giovane che,
diversamente da Abdullah con il suo arabo pieno d’inflessioni inglesi, sa come
parlare con loro.
Una moglie palestinese che interpreta in modo
molto occidentale il suo ruolo di regina, non è di grande aiuto nella realtà
giordana. Il re è molto simpatico e rispettato in tutto il mondo, ha modi
franchi e aperti, ma la sua educazione anglosassone non è stata da re: non era
lui che doveva diventarlo, del resto. L’esempio egiziano, quello siriano e di
altri Paesi forse dimostrano che anche
le qualità e la personalità di un monarca sono strumenti obsoleti di potere. Fino
ad ora tuttavia le Primavere hanno fatto cadere solo presidenti-rais, non re.
Perché il mondo arabo sta cambiando ma non dappertutto.
Intanto Buon Natale a tutti.