“La Primavera araba ha catturato parte dell’attenzione. Non era tempo di negoziati a lungo termine: era iniziato un dibattito sulla stabilità dell’intero mondo arabo, sulla natura dei regimi. In Europa e in America la gente aveva a che fare con i problemi economici”. Lo diceva Salam Fayyad qualche giorno fa al giornale israeliano Yediot Ahronot: il premier palestinese giustificava le ragioni dell’inesistenza di un processo di pace, fermo dal settembre 2010.
Come dire: scusate se siamo occupati da 45 anni; ci rendiamo conto che nel mondo esistono oggi altre priorità. Se appena risolvete i vostri problemi vi ricordate dei nostri, ci fate un favore. Moderazione eccessiva, tenendo conto che per il governo israeliano, mezza comunità ebraica nel mondo, molti americani e per tutti i candidati alle primarie repubblicane, i palestinesi sono terroristi.
Dal carcere nel quale gli israeliani lo hanno condannato a quattro ergastoli, anche Marwan Barghouti ammette l’evidenza: “non c’è ragione di fare tentativi disperati per infondere vita a un corpo morto”. Si riferisce al tentativo giordano, fallito la settimana scorsa. Il processo di pace è defunto e con lui, forse, la soluzione dei “due stati per due popoli”.
Nel frattempo Bibi Netanyahu non sta ad aspettare che il resto del mondo risolva i suoi problemi. Secondo Peace Now, nel 2011 gli israeliani hanno incominciato a costruire 1850 nuove case nei Territori occupati: il 19% più dell’anno prima. Anche se distratta dalle sue debolezze economiche, l’Unione Europea denuncia il tentativo israeliano di espellere i palestinesi dall’area C. I vecchi accordi di Oslo, miracolosamente ancora in vigore, avevano diviso la Cisgiordania in tre zone: la A sotto controllo palestinese, la B a responsabilità congiunta, la C tutta israeliana. L’area C è la più grande, il 60%.
Bibi Netanyahu rifiuta di avviare la trattativa sulla base proposta da Barack Obama: le frontiere del 1967. Contemporaneamente rifiuta di presentare le posizioni israeliane. Nel suo discorso all’università di Bar Ilan, 14 giugno 2009, aveva detto di volere uno stato palestinese. Ma Netanyahu è un bugiardo: lo hanno detto anche Sarkozy e Obama. Lo sanno alleati e avversari politici in Israele e i leaders europei; lo sanno Hillary Clinton, suo marito Bill, George Bush e due o tre altri segretari di Stato. E anche l’ex negoziatore George Mitchell boicottato dal pernicioso Dennis Ross, simbolo dell’ “ossequioso appoggio a Israele, diventato norma della politica americana anche quando ne contraddice gli interessi nazionali”, come scrive Rashid Khalidi.
Ma questo era noto. Poiché gli israeliani sono convinti che la soluzione non sia nella pace ma nella “gestione del conflitto” a tempo indeterminato, la domanda è cosa pensano di fare i palestinesi. L’idea di Salam Fayyad di dimostrare il diritto all’indipendenza, costruendo le istituzioni di uno Stato, è andata. Quella di Abu Mazen di presentare la causa all’Onu, anche. Una terza Intifada sarebbe un suicidio. Che fare, dunque? Niente. Perché se ci fosse un processo di pace, come gli israeliani, anche i palestinesi dovrebbero fare delle concessioni. Abu Mazen che quest’anno vuole indire le elezioni presidenziali, non può fare concessioni in mezzo a una campagna elettorale. Anche Barack Obama è in pista in America: per questo finge non esista un problema palestinese. E lo è Bibi che vuole anticipare le elezioni israeliane per farsi rieleggere prima di Obama. Netanyahu sa che se lo facesse dopo, un presidente americano rafforzato da una rielezione, si dedicherebbe alla sua sconfitta. E’ già accaduto: nel 1999 Bill Clinton andò oltre i limiti dell’ingerenza per farlo perdere contro Ehud Barak. Questo è il conflitto fra israeliani e palestinesi: il più antico perché non vi succede mai niente di nuovo.