A luglio Nelson Mandela era partito dalla residenza ufficiale di Houghton, poco fuori Johannesburg, per festeggiare i suoi 93 anni a Qunu, nel Transkei. E’ una tradizione alla quale raramente ha rinunciato. Cinque mesi più tardi Madiba è ancora lì, in quella casa vicino all’autostrada N2 che va verso East London e che nessun viaggiatore sospetterebbe ospiti l’uomo più importante del mondo.
La notizia è tutta qui ma non è di poco conto. Fra residenza e casa c’è una grande differenza: è nella casa che ogni uomo desidera morire. Di tutti i luoghi nei quali ha vissuto da bambino inconsapevole, uomo discriminato, imprigionato e infine libero, Qunu è la casa di Nelson Mandela. Era nato a Mvezo, a una quarantina di chilometri di distanza. Ma è a Qunu che ha vissuto gli anni più belli dell’infanzia e della prima adolescenza. Come Ahmedabad nel Gujarat per il Mahatma Gandhi, Qunu nel Transkey è il punto di partenza del cammino straordinario di Nelson Mandela.
La notizia sottintesa è che Madiba sta per lasciarci. Lentamente, ora assopendosi ora risvegliandosi come se volesse andarsene senza farci soffrire. E’ così forse che preferiscono morire quei pochi uomini che hanno dato una speranza all’umanità e l’hanno amata fino all’ultimo respiro: abituandola all’insopportabile idea di dover restare senza di lui.
Non so se anche per voi è così. Ma io non riesco ad abituarmi all’idea di un mondo senza Madiba. Lo saluto ogni giorno quando esco e quando rientro a casa: all’ingresso ho affisso il suo poster elettorale del 1994 con la scritta “Mandela for President, the people’s choiche!!”. Madiba è in giacca e cravatta, non con una delle sue allegre camice africane. E il sorriso è piuttosto formale: non esattamente uno di quelli radiosi ai quali ci ha abituati. Ma vi sono affezionato perché quel poster l’avevo staccato con le mie mani dal palco di Cape Town dove Mandela aveva appena celebrato con il vescovo Tutu e un milione di sudafricani la grande festa della vittoria elettorale. L’inno “N’Kosi sikelele Africa”, Dio benedica l’Africa, aveva riempito la piazza, la città, tutto il Sudafrica. Ma subito dopo Mandela e Tutu avevano ordinato alla folla di cantare anche “Die Stem van Suid Afrika”, l’inno dei bianchi afrikaners. Da quel momento il Sudafrica sarebbe stato uno ma con due inni.
Sono un giornalista fortunato: ho vissuto in Sudafrica gli anni della fine dell’apartheid; ho seguito la transizione voluta da Mandela e Frederik de Klerk, negoziata da due giovani, il nero Cyril Ramaphosa e il bianco Roelf Meyer; ho raccontato il miracoloso accordo fra Mandela e il generale boero Costand Viljoen che ha trasformato una guerra civile in una nazione arcobaleno. Poi il nuovo governo, la Commissione per la verità e la riconciliazione del vescovo Tutu. Ero anche allo stadio di Ellis Park quel giorno in cui Madiba scese in campo con la maglia degli Springboks. Una nazione nuova si era messa in moto e io c’ero, l’avevo seguita annotandone i passaggi, sapendo di avere fatto un lavoro inadeguato. Perché i miracoli non si possono descrivere, forse non esistono nemmeno quando li vedi.
Pochi nel mondo hanno seguito l’esempio politico di Madiba. Anche il Sudafrica, 17 anni dopo quella vittoria elettorale, non è ancora esattamente il Paese che doveva essere. Nelson Mandela ha dato un’opportunità a chi la volesse cogliere. Anche a tutti quei piccoli leaders di scarso coraggio e poche visioni che affollano il mondo di oggi sempre più in crisi d’identità. Resista caro Madiba, ci regali altri cento anni della sua presenza fra noi.