“Prepariamoci al prossimo Shalit”, scriveva ieri Akiva Eldar, un giornalista israeliano importante. C’è tutto il tradizionale pessimismo ebraico, culturale e politico, in questa considerazione. Se l’oggi è questo, il domani non può essere migliore. Dunque prepariamoci, armiamoci, restiamo vigili in cima al nostro muro che ci isola dagli altri.
La convinzione di Eldar, che ha le sue giustificazioni, ci ricorda anche che la liberazione di Gilat Shalit in cambio di quella di un migliaio di prigionieri palestinesi, avviene e finisce oggi. Non ci saranno altri scambi (ci sono ancora 15mila prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane), Hamas e Israele non ne approfitteranno per provare a iniziare un dialogo: tutta la trattativa attorno a Shalit è sempre avvenuta per interposta persona. Né domani inizierà un nuovo processo di pace o riprenderà quello vecchio sponsorizzato dal Quartetto (Usa, Eu, Onu e Russia), un fantasma negoziale che cammina. E’ stato solo l’avvenimento di un giorno, un fatto di cronaca nel conflitto centenario fra israeliani e palestinesi.
E’ sempre una buona notizia quando un giovane riconquista la libertà. E lo è anche quando finalmente i media italiani, tradizionalmente così insulari, danno così tanto spazio a un avvenimento internazionale che non riguardi direttamente le nostre tasche di risparmiatori. I quotidiani, i siti, le radio e le tv hanno tutti aperto sulla liberazione di Shalit. All’estero stanno facendo anche di più. Ma per che cosa, a ben guardare?
Non è stato sgozzato un neonato nella sua culla (nel conflitto è accaduto anche questo). Il caporale carrista Gilat Shalit era un soldato inesperto, in servizio sul fronte di Gaza quando è stato rapito o preso prigionieri. Hamas gli ha concesso di scrivere a casa una volta sola, e una sola volta delle immagini hanno provato che era vivo. I carcerieri hanno violato costantemente le norme della Convenzione di Ginevra. Ma Shalit era un soldato e queste cose fanno parte degli incerti del mestiere.
Non è nemmeno la prima volta che per riportare a casa uno dei suoi, vivo o morto che sia, Israele libera centinaia di nemici. Lo fece con gli Hezbollah libanesi un combattente nato come Ariel Sharon. Soprattutto con i fondamentalisti sciiti del Libano, spesso è accaduto che i nemici si scambiassero i resti di soldati e miliziani morti sul campo di battaglia: un corpo per due braccia e una gamba. C’è anche una forma di necromachia in questo conflitto.
Non deve dunque stupire la differenza tra la liberazione di un solo israeliano e quella di oltre mille palestinesi. Non è una vittoria di Hamas a Gaza sui concorrenti palestinesi di Abu Mazen a Ramallah. Al contrario, sono i fondamentalisti che accettando l’accordo adesso, hanno dovuto correre dietro al successo di Abu Mazen alle Nazioni Unite, quando ha presentato con moderazione la causa palestinese davanti al mondo intero. La dicotomia fra uno e mille tiene anche conto che solo 280 prigionieri palestinesi avevano avuto la condanna all’ergastolo per gravi atti di terrorismo. Tutti gli altri erano stati imprigionati per aver protestato, lanciato un sasso, compiuto gesti di legittima resistenza a un’occupazione che dura da 44 anni. Spesso vengono arrestate donne, vecchi e minorenni.
Gilat Shalit comunque è libero. Finisce l’incubo di un giovane al quale il mondo, per pietà e un senso di giustizia, ha dato il suo abbraccio. A Parigi gli era stata data la cittadinanza francese e, per solidarietà, anche il Comune di Roma gli aveva concesso quella capitolina. Il conflitto continua, come ieri. Sarebbe bello adesso se il mondo non dimenticasse di nuovo gli altri prigionieri: i tre milioni di palestinesi dei Territori, ostaggi dei coloni, dell’occupazione israeliana e del massimalismo di alcuni dei loro leader arabi.