Dalla Primavera a Gheddafi, da Gheddafi alla Primavera

Stavo scrivendo questo articolo per Slow News, quando "Il Sole-24 Ore" ha deciso di scrivere a tempo di record un magnifico instant book, "Gheddafi – La fine di un dittatore". Col titolo "Il destino ancora incerto della Primavera araba", il mio post è dunque diventato uno dei 16 capitoli del libro coordinato e scritto  dai giornalisti del Sole e da alcuni dei suoi autorevoli collaboratori. "Gheddafi – La fine di un dittatore", lo potete comprare sia in edicola che sul web come e-book. Merita la vostra attenzione.

 

00_cover_Gheddafi_DEF-258Un nuovo dittatore mediorientale esce di scena. Gli altri che rimangono dovrebbero essere ancora più preoccupati di quanto già non fossero ieri. Riconosciamo a Gheddafi almeno la dignità di non essere fuggito con la cassa ma di avere accettato fino in fondo il suo destino. Morto il rais libico, il futuro è dei vivi. Un futuro incerto, se essere esaltante o preoccupante, soprattutto per chi vive la Primavera degli arabi.

  E’ una settimana particolare questa, per il Medio Oriente. A Sirte scompare Gheddafi, in Tunisia si vota. E’ il primo voto figlio delle rivolte arabe, un momento di gioia più grande della morte di un altro dittatore. Fine del passato e inizio del futuro. Ma non sarà un’elezione a sancire la vittoria della Primavera a Tunisi come non lo è la fine del dittatore in Libia. E’ tutto così confuso nella stagione delle rivolte che solo gli ottimisti inguaribili e i pessimisti incalliti – per natura o interesse politico -  offrono certezze imprescindibili.

  Stabilito che un fallimento sarebbe evidente a chiunque (conflitti civili, colpi di Stato, rivolte religiose e alla fine Grande Guerra arabo-israeliana), proviamo a individuare cosa definirebbe il successo delle Primavere arabe.

  I protagonisti sono tre: i laici (bloggers, liberali, marxisti, intellettuali e democratici in genere), le Fratellanze islamiche e i militari. Chi più, chi meno, queste tre forze sono presenti in ogni Paese in subbuglio. E’ il ruolo che alla fine avranno, a farci capire lo sviluppo delle Primavere. Escludiamo subito i laici, i nostri campioni, di noi occidentali. Sono i più deboli, difficilmente arriveranno al potere e se vi parteciperanno non lo influenzeranno molto. Non solo perché sono divisi e litigiosi: non hanno ancora conquistato i cuori e le menti dei loro concittadini.

  Affinché le Primavere abbiano davvero successo bisognerà vedere cosa faranno gli altri due protagonisti, quelli veri. Secondo logica dovrebbero fare una sola cosa: i militari rientrare nelle caserme, gli islamici diventare democratici. Sono le forze armate e le polizie che nei Paesi arabi hanno fatto i colpi di Stato e imposto i regimi che ora stanno lentamente scomparendo. Il rischio è che cavalchino il nuovo solo per salvare il vecchio del quale erano i titolari. Gheddafi, Mubarak, Saleh dello Yemen avevano tutti iniziato in divisa; Assad di Damasco faceva l’oftalmologo ma è figlio di un generale golpista; il tunisino Ben Ali portava l’impermeabile scuro della polizia segreta  della quale era il capo. Se i militari di oggi accettassero di occuparsi solo della difesa nazionale dei loro paesi, lasciando il potere ai civili, questa sarebbe una grande Primavera.

  Ed è l’Islam politico che i militari hanno congelato, tenendolo lontano dal potere, impedendo di capire se le fratellanze avessero un fondamento democratico o aspirassero solo a una dittatura religiosa. Se, insomma, il futuro delle Primavere arabe potrebbe essere più simile al modello turco o a quello iraniano. I rais venuti dalle caserme, soddisfacendo anche le nostre preoccupate richieste, li hanno sempre repressi, isolati, rinviando la scoperta della verità. Ora è venuto il momento di farlo e non c’è più molto tempo.

  Che i militari tornino in caserma e gli islamici diventino democratici, è il risultato ideale: forse però più per noi occidentali che per gli arabi. Non potrà accadere in maniera così netta, come se il Medio Oriente potesse produrre d’improvviso dei Thomas Jefferson in ogni Paese. Soldati e Fratelli musulmani probabilmente non entreranno del tutto nelle caserme né nei parlamenti. Sarà una via di mezzo: creeranno una nuova forma di democrazia, distante per qualità dalla nostra ma forse più vicina al comune sentire delle loro società civili ancora magmatiche, ancora dubbiose se rimpiangere i vecchi rais o affrontare il nuovo mai visto prima.

   Più passa il tempo, più i dittatori finiscono in galera o muoiono, più pressante si fa il nostro desiderio di avere certezze dal mondo arabo. In Libia il destino di Gheddafi è stato molto determinato dagli europei. Altrove no: in Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrain hanno fatto tutto da soli. In Siria c’è lo stallo e l’Occidente non ha la forza politica di andare in soccorso dei “nostri”. Non potendo contribuire a determinare il destino degli altri come abbiamo fatto a Tripoli, ci siamo affidati all’unica speranza sottomano: la Turchia. La speranza cioè che militari e musulmani ortodossi si comportino come i loro colleghi in Anatolia, contribuendo a far rinascere un grande Paese moderno e tradizionale, democratico e islamico. Non sarà così facile. Gli arabi hanno fatto le loro rivolte da soli e da soli stanno cercando la loro via per il futuro. Per ragioni geopolitiche, religiose ed economiche, la Turchia vale quanto l’Europa e gli Stati Uniti. Modelli dei quali tenere conto, non da imitare.

Quello che noi in Occidente non dobbiamo fare è pensare che siano Primavere solo quelle che si trasformeranno in democrazie come le nostre. Non dobbiamo d’improvviso dimenticare quanto ci sia costato e quanto tempo sia stato necessario perché noi diventassimo le società civili che siamo. Diamo tempo agli arabi e assumiamoci le nostre dosi di rischio.   

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  • nadia |

    Mi dispiace di non leggere in questo articolo un’analisi sulle questioni economiche legate a questo conflitto. Vogliamo pensare che non ci fossero?

  • renata |

    e in questo contesto non crede sia opportuno affrontare seriamente l’ingresso della Turchia nella UE ?

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