Dopo aver mobilitato 20mila riservisti, alla fine di marzo del 2002 Ariel Sharon invase la Cisgiordania e occupò le città che godevano dell’autonomia garantita dagli accordi di Oslo. “Scudo Difensivo” fu il nome dell’operazione, la più imponente dalla guerra del 1967. La seconda Intifada era nella sua fase più sanguinosa, i terroristi suicidi palestinesi di Hamas facevano strage di civili israeliani.
A Ramallah i carri armati assediarono per mesi la Muqata, il quartier generale di Arafat e dell’Autorità palestinese. Gli accordi di Oslo e la formula dei “due stati per due popoli in pace e sicurezza” furono dati per defunti. Ma tre anni più tardi Sharon avrebbe ordinato il ritiro unilaterale da Gaza e da alcuni insediamenti ebraici in Cisgiordania.
Avrebbe continuato se non l’avesse fermato un ictus. Come tutti i falchi di destra e di sinistra che hanno governato Israele, anche il vecchio Arik “conquistatore di terre arabe”, aveva capito che per salvare Israele, la sua demografia ebraica insieme alle sue istituzioni democratiche, bisognava separarsi dai palestinesi: meglio uno Stato più piccolo ma compatto che una Grande Israele razzista e illiberale.
Molti pensano che il primo luglio, la data a partire dalla quale Bibi Netanyahu sarebbe “autorizzato” all’annessione di nuovi territori palestinesi, accadrà qualcosa di simile: carri armati e occupazione militare. Non sarà così. Quello che avverrà il primo luglio – posto che avvenga e che invece non accada proprio nulla – sarà un atto burocratico. Nel nuovo terzo di Palestina che Israele ruberà, abitato dalla grande maggioranza delle colonie più la valle del Giordano, le forze armate ci sono già. I palestinesi che ci vivono sono già sottoposti all’autorità militare israeliana; la loro autonomia è già limitata alla cerchia delle città o dei villaggi; per andare a coltivare la terra dalla quale possono essere facilmente espropriati, devono chiedere il permesso israeliano; per vivere consumano prodotti israeliani; le loro strade, quando a un posto di blocco non li rimandano indietro, sono peggiori di quelle degli occupanti.
E i coloni israeliani sono da sempre liberi di comportarsi come se fossero già dentro confini dello Stato ebraico internazionalmente riconosciuti: vanno e vengono quando vogliono; aggrediscono i palestinesi, segando i rami dei loro ulivi; sono tutti armati e comunque protetti dalle forze armate. Dopo l’eventuale primo di luglio, il loro passaggio formale dall’amministrazione militare dei territori occupati a quella civile dello Stato, faciliterà l’allargamento delle loro colonie e il furto di altra terra. Per il resto fra il 30 giugno e il 2 luglio non cambierà nulla. La burocrazia dell’occupante non ha bisogno di blitzkrieg, le sue armi sono il silenzio e la carta bollata.
O meglio, due cose saranno diverse, rispetto a “Scudo Protettivo” del 2002: la leadership d’Israele e la vera fine di Oslo. Ariel Sharon aveva la gravitas, a volte tragica, dei padri fondatori. Bibi Netanyahu è un opportunista: l’annessione, il rinvio o un ripensamento dipendono solo dalle opportunità che offrono al mantenimento del suo potere. La destra nazional-religiosa che lo sostiene ha un elemento di razzismo che prima Israele non aveva. Il loro obiettivo non è una pace ma l’idea messianica di una Israele biblico-tecnologica dal Mediterraneo al Giordano.
Qualcuno s’illude ancora che questa nuova annessione – se avverrà –aprirà la strada a uno stato bi-nazionale, anziché ai due promessi da Oslo. In meno di due generazioni i palestinesi ne saranno maggioranza. Ma i coloni non occupano, costruiscono e sparano per essere governati da un premier arabo. La loro idea di democrazia, se ne hanno una, è etnica. Ammettendo che l’espulsione sia per ora impraticabile, i palestinesi continueranno a vivere dentro le loro enclave, con un’autonomia inutile, separati gli uni dagli altri. E’ così già oggi, anche dove non è prevista l’annessione: da Ramallah a Nablus, a Jenin, da Betlemme a Hebron, non esiste continuità territoriale palestinese ma isole, piccoli Bantustan abitati da non-cittadinini. Se tentano di ribellarsi, i carri armati entrano anche nei Bantustan.
Una realtà così insopportabile ma sopportata dalla comunità internazionale senza grande scalpore – compresi regni, emirati e repubbliche arabe – non poteva accadere senza i colossali errori dei palestinesi. E’ nel loro cromosoma politico essere convinti che la strategia sia tutto e la tattica una perdita di tempo. Anche se spesso giustificati, i loro ripetuti no, o tutto o niente come se nel negoziato fossero loro la parte più attrezzata, sono stati devastanti per la causa nazionale.
Il piano di pace dell’amministrazione Trump è un insulto. Ma prevede uno “Stato Palestinese”, addirittura la sovranità su un pezzo di Gerusalemme Est, sebbene nell’estrema periferia. Non è questo che i palestinesi attendono da 70 anni. Ma tattica sarebbe stata aprire un negoziato su quel piano: guadagnare tempo in attesa che a novembre Trump possa perdere le elezioni; soprattutto provocare le destre che sostengono Netanyahu. Come hanno dimostrato, non vogliono uno Stato palestinese e rifiutano qualsiasi piano che solo ne preveda la parvenza. Se i palestinesi avessero detto “trattiamo” avrebbero costretto gli israeliani a dire di no. Ma è dal piano di spartizione Onu del 1947 che non sanno rinunciare al ruolo suicida di Mr. Niet.
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Allego un commento sugli scontri di frontiera fra India e Cina, apparso sul sito di Ispi.