In Siria sono morti Marie Colvin del Sunday Times e Rémy Ochlik, fotoreporter francese. Non cambiate canale, non voglio proporvi un altro “coccodrillo” che con più eleganza gli anglosassoni chiamano obituary: un articolo dedicato a una persona di una certa rilevanza appena scomparsa. Conoscevo Marie da 30 anni anche se non bene come il suo ex marito Juan Carlos Gomucho, guarda caso un altro corrispondente di guerra: lui si un fratello. Juan Carlos non c’è più da un bel po’ e adesso è andata anche Marie. Fine.
Vorrei invece scrivere di noi sopravvissuti. Ogni volta che muore qualcuno del giro, si scatenano tre reazioni una più deprecabile dell’altra. La prima è, appunto, la corsa al coccodrillo e alla retorica che nei coccodrilli tende sempre le sue trappole migliori. Il testo è una gara a commuovere fra chi conosceva meglio il caro estinto, chi con lui aveva vissuto le esperienze più incredibili.
Senza avere il coraggio di scriverlo, i più estremisti di questa categoria desiderano almeno per un numero di giornale essere al posto del morto: per vivere brevemente l’ebbrezza della gloriosa commiserazione. La tua foto sui giornali, i colleghi che raccontano la tua storia con la stessa retorica nella quale saresti caduto tu. In fondo, la cosa insopportabile della morte di un collega è che morendo ti ha dato un buco.
Non so se mi capiterà di fare un altro servizio di guerra: il problema crescente non è l’assenza di conflitti – quelli non mancheranno mai – ma di soldi delle aziende editoriali in questi anni di crisi economica. Propongo che chi lo farà, prima di partire vada da un notaio a chiedere formalmente che, in caso di morte, i colleghi non scrivano di lui e nessuno intesti a suo nome un premio giornalistico.
La seconda categoria degli inviati sopravvissuti è quella del “piangina”, così almeno diciamo noi milanesi: chi protesta perché non si fa nulla per proteggere il lavoro dei corrispondenti di guerra. Come se il campo di battaglia dovesse includere una tribuna stampa. E’ un atteggiamento irrispettoso verso i veri protagonisti: i politici e i generali che comandano, i soldati che combattono e i civili che vi finiscono in mezzo. Chiedere a loro il rispetto della libertà di stampa è improprio. La guerra o una rivoluzione sono cose serie: c’è gente che muore. Il giornalista che le segue non ha diritti, può solo ponderare i rischi.
I puristi sono l’ultima nostra categoria. Quelli che credono nella Verità (?), nella verginità del proprio lavoro; che denunciano le crociate senza accorgersi di farne una anche loro. C’è un grande dibattito attorno al giornalista embedded, cioè il giornalista che segue un conflitto aggregato a un esercito o invitato da un regime. Che per il purista sono sempre la parte sbagliata. Questi colleghi forse ignorano che furono i giornalisti americani al seguito delle loro forze armate a scrivere per primi che la guerra del Vietnam era sbagliata e sarebbe stata persa. In Libia, i giornalisti che avevano ottenuto un visto per Tripoli hanno capito molto prima dei colleghi a Bengasi, al seguito dei rivoluzionari, che il regime di Gheddafi sarebbe crollato.
La qualità di un giornalista non è definita dal punto di osservazione ma dalla sua intelligenza e correttezza. Quella troupe dell’Abc americana, al seguito di soldati del suo Paese in Iraq, non ha esitato a filmare e mandare in onda i soldati americani che dentro una moschea hanno finito due insurgents a terra, feriti. Si può essere giornalisti dignitosi ovunque: anche seguendo un omicidio passionale a Finale Ligure o un consiglio comunale a Roma.
Quest’ultima considerazione ci porta a un’altra caratteristica degli inviati di guerra: il reducismo e la presunzione che nessuno sia giornalista quanto noi. Come scrive Bernardo Valli su Repubblica, quella del corrispondente di guerra non può essere una qualifica: non puoi fare sempre quel lavoro, fa male all’equilibrio umano e al buon lavoro giornalistico il quale è un’attività artigianale. Non è arte, non è verità e nemmeno crociata ma testimonianza ora, di quell’evento e non altro.
A corredo di questo post, pubblico una mia foto degli anni ottanta con i mujaheddin afghani ai tempi dell’occupazione sovietica. Sono il terzo da destra, mi si distingue dalla qualità delle scarpe. Vorrei poter dire che la mostro per provare che ho qualche diritto per giudicare gli inviati di guerra. In realtà so che l’ho fatto per presunzione, per la stessa serie di malattie che ho appena descritto, dalle quali non si guarisce.