ARTICOLO USCITO SU IL SOLE-24ORE DEL 16/11/2012
Fra le bombe e i razzi di ogni calibro esplosi quattro anni fa durante “Piombo fuso”, la cosa più fragorosa fu il silenzio di Hosni Mubarak, del presidente palestinese Abu Mazen, dei giordani, dei sauditi e di ogni emiro del Golfo. Dichiarazioni di circostanza e niente altro. All’operazione militare israeliana che per 24 giorni aveva messo a ferro e fuoco la striscia di Gaza, il mondo arabo rispose con l’oblio. Come se la sanguinosa faida fra Israele e Hamas si stesse svolgendo in Oceania.
Se guardiamo al Medio Oriente di oggi non sembra siano passati quattro anni ma due secoli. Israele e l’irrisolto problema palestinese sono l’unico conflitto ereditato dal secolo precedente, passato da un punto all’altro della storia restando sempre lo stesso. Tutto il resto è mutato anche se i due contendenti tendono a ignorarlo: soprattutto Israele di Bibi Netanyahu.
Non è la prima volta che Hamas o qualche altra organizzazione che Hamas finge di non saper controllare, sfidano Israele. Qualche Kassam verso un paio di kibbutz, la risposta israeliana “misurata all’aggressione”, la mediazione egiziana, il cessate il fuoco. Questa volta è diverso: Hamas da Gaza e più timidamente il regime siriano dal Golan, cercano di trascinare Israele dentro questo secolo nuovo chiamato per convenzione Primavera araba. In tutte le sue forme – proteste, lotte di piazza, elezioni, nuove costituzioni o guerre civili – fino ad ora le Primavere hanno completamente ignorato Israele e la questione palestinese. Le priorità erano e restano le libertà civili, il ruolo dell’Islam, le crisi economiche o il brutale tentativo di sopravvivenza dei vecchi regimi.
Questo non vuol dire che dal Maghreb allo
stretto di Hormuz gli arabi abbiano dimenticato la tragedia palestinese. Resta
sempre una ferita aperta e un’umiliazione collettiva. E’ solo questione di
priorità e di tempo: prima o poi la Palestina e l’occupazione israeliana
torneranno al centro della scena. C’è chi, però, cerca di accelerare i tempi.
L’Iran, il regime siriano, Hezbollah libanese e Hamas di Gaza che dagli altri
riceve razzi e finanziamenti per la sua ostinata battaglia. Supponiamo che
Israele sia spinto a un’altra guerra totale a Gaza o a reagire con la forza che
gli è abituale alle punzecchiature siriane sul Golan, a Nord. Richiamati alle
antiche parole d’ordine della lotta al nemico sionista, sotto quale angolatura gli
arabi vedrebbero l’ambizione nucleare iraniana, la brutale resistenza di Bashar
Assad, o il potere che esercita sul Libano Hezbollah, l’ultima milizia araba ad
aver combattuto Israele con un certo successo?
Qualche giorno fa al ministro degli Esteri
turco Ahmet Davutoglu in visita a Roma, una giornalista aveva chiesto se
Israele sarebbe diventato un alleato della rivolta al regime di Assad, nel caso
in cui Netanyahu avesse reagito con forza alle provocazioni siriane. “No”, ha
risposto il ministro ma era in evidente imbarazzo. E come si comporterebbe
Mohamed Morsi, il presidente egiziano dei Fratelli musulmani dai cui lombi è
nato Hamas? L’Egitto è il Paese fondamentale di questa nuova crisi su Gaza.
Diversamente da Hosni Mubarak, Morsi e altri leader delle Primavere arabe hanno
ora un’opinione pubblica e un elettorato cui rendere conto. In tutti questi
mesi Morsi ha ignorato Israele e da ieri, costretto a doversene occupare, ha
reagito con moderazione. Ma se si ripetesse “Piombo fuso” gli sarebbe
impossibile continuare così.
Infine c’è Israele. Sarebbe facile vanificare
il disegno dei suoi nemici, moderando la risposta alle provocazioni. Ma è
difficile. Non è solo a causa di un uso militare delle elezioni che si
svolgeranno fra due mesi: nessun leader, nemmeno uno pacifista, potrebbe andare al voto ignorando la pioggia
di razzi che cade su un milione di israeliani. Il problema è che Bibi Netanyahu
rifiuta di ammettere il nuovo secolo mediorientale. Le Primavere offrono
pericoli e opportunità ma Israele vede solo i primi, rifiutando di fare qualsiasi
passo, ancor meno verso una soluzione dello Stato palestinese: sarebbe una
minaccia alla sicurezza nazionale e non un’opportunità, in un momento di
transizione come questo. Lo teme la gran parte degli israeliani ma Netanyahu e
la sua retorica amplificano la paura collettiva. Un Paese che nell’hi-tech e
nelle start up dimostra un’inventiva straordinaria, nella politica si intorpidisce,
rifiuta le occasioni chiudendosi dietro il suo muro di ferro. Così il Medio
Oriente che non è più nel suo vecchio secolo, alla fine non è neppure nel
nuovo: è solo paralizzato in un anno zero pieno di pericoli.