PUBBLICATO SU IL SOLE-24 ORE IL 17/11/2012
Può un “precipizio fiscale” a Washington cambiare, a 7mila chilometri di distanza, i termini del problema palestinese dopo 45 anni di stagnazione? E’ la domanda che al governo e allo stato maggiore israeliani si pongono forse con la stessa preoccupazione con cui misurano la gittata dei missili di Hamas. Comunque vada a finire questa nuova escalation su Gaza, Israele sarà più solo di prima.
“Il nostro presidente è occupato”, scriveva qualche giorno fa sul New York Times uno dei suoi più importanti commentatori: Barack Obama deve risolvere la disoccupazione di Betlemme, Pennsylvania prima dell’occupazione di Betlemme, Palestina. Ma anche se non fosse così assillato dalle questioni economiche interne, difficilmente il presidente farebbe più del minimo sindacale a favore di Bibi Netanyahu che detesta profondamente. Da presidente, Obama non ha mai visitato Israele.
Questa amministrazione concede a Israele il diritto di difendersi dall’assalto dei razzi di Hamas ma non condivide l’escalation militare. Come gli europei, posto che contino qualcosa, i quali invocano il cessate il fuoco senza avere alcuno strumento di pressione. Queste reazioni sono molto diverse da quel che ha detto ieri Mohamed Morsi, all’uscita da una moschea del Cairo: “L’Egitto non lascerà Gaza da sola”, perché l’Egitto di oggi è diverso da quello di ieri come gli arabi di oggi lo sono da quelli di ieri”. Il presidente egiziano asseconda il suo elettorato: nemmeno lui vuole che il militarismo di Hamas arrivi fino all’estrema conseguenza di aprire la strada all’invasione terrestre israeliana. Il suo vero successo politico sarebbe imporre un cessate il fuoco, non sostenere la guerra di Hamas.
Ma il messaggio è comunque chiaro. Gli
americani si sfilano, almeno per il momento; gli europei osservano e i governi
arabi si mobilitano. Il primo cambiamento è nella definizione di “honest
brooker”, il mediatore equidistante del conflitto fra Israele e palestinesi,
come da vent’anni si definiscono gli americani. In realtà non lo sono quasi mai
stati: nelle trattative di pace come nelle crisi, prima rispondevano alle
priorità americane (mai preso un’iniziativa forte contro la moltiplicazione
delle colonie) poi, eventualmente, alle rivendicazioni palestinesi. Ora è
l’Egitto, appoggiato dalla Turchia, ad essere il mediatore onesto a priorità
invertite: prima la necessità di uno Stato palestinese, poi le legittime richieste
israeliane.
Anche gli egiziani sanno di avere dei limiti.
Il primo ministro Hisham Qandil che ieri ha visitato Gaza “in segno di
solidarietà verso Hamas”, è lo stesso che qualche giorno prima aveva postato su
Facebook il suo programma economico: aumentare del 60% in sei mesi le riserve
valutarie egiziane ora a un arido livello di 15,5 miliardi di dollari; raddoppiare
in un anno la crescita economica. Obiettivi che non possono essere raggiunti
senza l’aiuto del Fondo monetario, degli americani e degli europei. Un sostegno
incondizionato ai razzi di Hamas renderebbe l’aiuto piuttosto complesso.
Ma questo non cambia l’isolamento israeliano
che è rafforzato da un secondo fatto nuovo della geopolitica mediorientale: la
comunione d’intenti politici, economici, militari e strategici fra Egitto e
Turchia. Entrambi guidati da partiti islamici, entrambi sostenuti dall’amministrazione
Obama della quale la Turchia è un alleato a tutti gli effetti.
Non è mai una buona notizia per il Medio
Oriente quando Israele si sente isolato. Ha sempre l’opzione della sua tremenda
superiorità militare. Se ne è sempre servito ma non è mai stata risolutiva. Da
che è incominciata questa ultima escalation le forze armate hanno colpito 500
obiettivi. Ma Hamas ha comunque lanciato 5.500 razzi, almeno fino a ieri
pomeriggio. E continua a tirarne. Ricominciò a farlo anche poche settimane dopo
l’invasione massiccia di quattro anni fa e ogni altra volta che Israele si era
convinto di aver inferto colpi risolutori.