“Tutti gli anni venivo qui e tutti gli anni i banchieri americani mi dicevano che dovevo aprire il sistema bancario indiano”, dice Kamal Nath, l’ex ministro del commercio, uno dei grandi negoziatori dell’Uruguay e del Doha round. “Riformate, riformate, insistevano. Poi è venuto il 2009 e da allora non mi dicono più niente. Anche perché di banchieri americani ne ho visti pochi qui a Davos, da allora”.
L’alba gelida ma luminosa e senza nuvole che sorge sulle Alpi svizzere, è in realtà l’alba dell’Asia e della sua irrefrenabile crescita. Nella sua evoluzione della specie, l’”Uomo di Davos” creato dal World Economic Forum – l’élite globale che guarda ai confini nazionali come a un ostacolo dello sviluppo, secondo la definizione di Samuel Huntington – si è diviso in due specie: quella originaria occidentale, piuttosto depressa, poco propensa all’ottimismo, sensibile allo spread, sempre più adattata al persistente clima della crescita zero o poco più. E il davosiano asiatico: spavaldo, con gli occhi puntati alle statistiche che non possono che dargli ragione, e a un futuro destinato a portare solo buone notizie. “Non è una novità, il processo è in corso da mezzo secolo”, tiene a chiarire Adi Godrej, attuale presidente di Cii, la Confindustria indiana. “Prima il Giappone e la Corea del Sud poi le tigri asiatiche, la Cina, l’India. Certamente ora si è accelerato e quello che sta accadendo è un rapido trasferimento in Asia del mercato globale”.
Boston Consulting Group ne ha misurato il valore: 10mila miliardi, 10 trilioni di dollari. E’ quanto consumeranno entro il 2020 Cina e India da sole e quanto guadagnerà chi venderà prodotti in quei mercati. In meno di sette anni la classe media asiatica, i consumatori, aumenterà di 700 milioni di individui. Saranno un miliardo solo in Cina e India, in 10 anni. Compratori e anche produttori, se saranno 135 milioni i giovani laureati cinesi e indiani mentre negli Stati Uniti saranno 30.
Christine Lagarde, ricordava che le ultime
dal Fondo monetario internazionale dicono che quest’anno il mondo sviluppato
crescerà dell’1,5%; quello in via di sviluppo del 5,5. Per noi, ricordava
Lagarde, il 2013 sarà un “make or break year”. Un’orribile incertezza che non
sfiora gli asiatici. “L’Indonesia è un Paese di 280 milioni di abitanti:
vent’anni fa era la ventottesima economia mondiale, ora è la sedicesima e nel
2030 sarà l’ottava”, spiega Prijono Sugiarto, presidente di PT Astra
International, una delle più grandi conglomerate del Paese. Insieme alla
crescita cinese che negli ultimi cinque anni è stata del 60%, è una buona
spiegazione dell’ambiente naturale nel quale si sviluppa il davosiano asiatico.
Come si può non essere ottimisti se, dice ancora
Kamal Nath, “L’Asia ha il 60% della popolazione mondiale ma solo il 20 dei consumi
globali. Asiatico è il 28% della middle class mondiale ma diventerà il 50 in
sei/sette anni. Quanto di più avremo bisogno di consumare?”. Già oggi, spiega
Boston Consulting, gli asiatici i più grandi acquirenti di auto, telefoni
mobili ed elettrodomestici.
L’ubris asiatica grondava dal titolo di un
incontro del World economic forum, convocato all’alba di ieri probabilmente per
rendere suggestivo e materiale il sole del benessere che sale da Oriente: “E’ questo
il periodo migliore della Storia del Mondo: la ricomposizione globale. Come
comprendere le implicazioni delle esplosive opportunità dei consumi in Asia”.
In Occidente forse solo il vincitore di una lotteria si azzarderebbe a chiamare
il 2013 “periodo migliore” della storia umana.