Lost Superpower. Obama in Terra Santa.

ObamaIl Sole 24 Ore, 20/3/2013

 

 

Qualcuno lo ha chiamato “turismo politico”. Per quale ragione Barack Obama dovrebbe andare in Israele e Palestina, se non per imporre la ripresa di un dialogo di pace congelato da due anni e mezzo? Invece oggi e domani il presidente visiterà Gerusalemme, Ramallah e Betlemme, poi andrà in Giordania e venerdì l’Air Force One lo riporterà a Washington senza che la soluzione del conflitto abbia fatto un passo avanti.

  Perché dunque questa visita? Lo ha detto lui stesso in un’intervista a Channel 2, la principale rete israeliana: Obama viene “ad ascoltare”. Come se i termini della più antica disputa dei tempi moderni non fossero già noti alla sua amministrazione e a quelle di altri cinque o sei presidenti prima di lui. Il problema non è registrare per la centesima volta l’ostinazione delle due parti ma di scardinarla, probabilmente esercitando i poteri attribuiti agli Stati Uniti dall’essere una superpotenza. Sempre che esserlo sia ancora un obiettivo americano.

  “Il tempo per ascoltare è finito, ora è il momento di atti concreti – suggerisce il Carnegie Endowment di Washington – Obama ha due opzioni: focalizzarsi su altre questioni o avviare un’iniziativa forte”. Tutto lascia credere che il presidente sia interessato alla prima delle due opzioni proposte: occuparsi d’altro, soprattutto di Iran e del suo nucleare. Nell’intervista alla tv israeliana non ha mai menzionato l’occupazione dei Territori palestinesi. E tolta una visita alla tomba di Yitzhak Rabin, il programma di Obama non prevede riferimenti al processo di pace.

  Qualcuno spera che nel suo unico discorso
pubblico aggiri Bibi Netanyahu e parli direttamente agli israeliani. Ma è
difficile che approfitti dell’occasione per fare una sorpresa di quel genere senza
aver prima preparato gli interlocutori. Sarebbe pericoloso anche perché alle
ultime elezioni la grande maggioranza degli stessi israeliani ha dimostrato di
non essere interessata a un compromesso con i palestinesi, di avere altre
priorità.

  Come per assecondare questa realtà,
presentando lunedì il nuovo governo alla Knesset, il premier Netanyahu ha
elencato il suo programma e solo alla fine della lista ha ricordato di essere
pronto a uno “storico compromesso” con i palestinesi. Ma anche questo è opinabile:
tutti i ministri con competenze dirette sulla questione palestinese sono della
destra nazionalista e non hanno alcuna intenzione di fare concessioni agli
arabi. Soprattutto Moshe Yaalon, il nuovo ministro della Difesa, ex capo
dell’intelligence militare, delle Forze armate e vice premier. Yaalon non vuole
fare un solo passo per spingere i palestinesi al dialogo perché non crede che
uno Stato palestinese debba nascere. Ma sulla questione iraniana è contrario a
un attacco israeliano ai siti nucleari: non lo ritiene efficace, come la gran
parte dei generali. E’ lo stesso punto di vista che da tre anni definisce la
politica mediorientale di Barack Obama: non la questione palestinese, non le
primavere arabe ma il nucleare degli iraniani e il primato della diplomazia
sull’azione militare per convincerli a desistere.

 

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  • gianni |

    Direi di no.. infatti e’ un problema.

  • tontoperonotanto |

    Mah..? A me sembra che nei “progetti” geo-politici in corso di “elaborazione”(di che genere?) nella problematica area medio-orientale ci sia anche un destino siriano.. O no?

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