Avendolo preannunciato in un post precedente, pubblico nel blog il reportage sulle startup israeliane, uscito il 26 maggio sul Sole-24 Ore cartaceo.
Ugo Tramballi
TEL AVIV. Dal nostro inviato. “In Israele ci sono troppe buone idee: il problema è capire quali sono le utili”, quelle cioè che servono alla gente e al mercato e fanno guadagnare soldi. A dispetto dei suoi 28 anni, Yoav Oz di Star-Tau, fisico da Navy Seals israeliani con i quali ha effettivamente prestato servizio di leva, insegna a chi ha quelle idee a farne un business. A trasformare un’intuizione in un’impresa.
Delle 20 domande di ammissione che ogni giorno riceve da quando ha aperto i battenti cinque mesi fa, Star-Tau ha selezionato 32 idee meritevoli di diventare una startup. Questo stesso centro di educazione all’impresa creato da un gruppo di studenti all’ombra della Tau, l’Università di Tel Aviv, è una startup. La Tau aveva dato loro circa 1.500 dollari e oggi muovono un capitale da un milione. Il prossimo passo sarà diventare una venture capital.
Perché quando trova il suo terreno naturale, una startup è un cromosoma culturale ed economico in continua mutazione. Secondo lo Startup Ecosystem Report 2012 nessun luogo al mondo dopo la Silicon Valley gli è più congeniale di Tel Aviv. Seguono Los Angeles, Seattle, New York, Boston e Londra. Per essere precisi, più di Tel Aviv, il quartiere Nord orientale di Ramat Hahayal. L’universo israeliano dell’high-tech e dei media digitali lo ha scelto e sviluppato in questo quindicennio semplicemente perché nel folle mercato immobiliare della città, i prezzi erano i più bassi. E per la vicinanza all’Università: della fenomenale impresa israeliana delle startup, i 57 colleges e le otto università del Paese sono un approdo fondamentale.
E’ più complesso spiegare perché in Israele è
accaduto tutto questo. Perché in un Paese di 7,8 milioni di abitanti, con
qualche serio problema geopolitico alle porte, operino 5mila startup: alcune
muoiono, molte diventano imprese consolidate, altre sono acquistate da
investitori stranieri. “Dopo 24 mesi una startup deve incominciare a prendere i
soldi dal mercato e diventare impresa”, dice Ziv Min-Dieli di The Time, uno dei
25 incubatori privati del Paese: in questo crescono 40 startup e 400 sperano di
entrare. Ma ogni anno ne nascono di nuove: 546 nel 2011, 575 l’anno scorso. Un
programma statale iniziato un ventennio fa con 100mila dollari ha creato un’industria
da quattro miliardi. “Un master plan non è mai esistito”, spiega Benny Zeevi,
uno dei due presidenti di Israel Advanced Technology Industries, una piattaforma
delle startup e delle venture capital che le finanziano. “In un certo senso eravamo
come Cristoforo Colombo: era partito con una mappa sbagliata eppure ha scoperto
l’America”.
Ma se negli Stati Uniti, a Londra o Parigi
le startup sono sostanzialmente genio e iniziativa privati con il corollario di
amministrazioni locali lungimiranti, in Israele è molto di più. E’ l’impresa
collettiva che definisce una nazione. Come i kibbutz 65 anni fa. Idealmente, le
startup sono il kibbutz tecnologico e globale del XXI secolo. Per spiegarne il
senso, il miliardario e ”imprenditore seriale” Yossi Vardi usa la parabola
della “madre ebrea”: “La tecnologia è ovunque. Ma in Israele tutti i figli
sanno che la mamma dirà loro: con tutto quello che ho fatto per te, è troppo
chiederti almeno un Nobel?”. Negli ultimi dieci anni Israele ne ha prodotti
sei: le mamme dovrebbero essere soddisfatte.
Tutto incomincia nel 1985 (Primo ministro
Shimon Peres) con il programma di stabilizzazione economica che trasforma
Israele da Stato del welfare socialdemocratico in neo-liberale. Prosegue con la
rivoluzione tecnologica delle Forze armate (Shimon Peres); con la Perestroika
che permette a migliaia di scienziati, matematici, inventori russi di emigrare
in Israele: il passaggio dal bagaglio teorico della loro educazione sovietica a
quello applicativo e commerciale ha richiesto forse cinque anni, non una
generazione. Poi c’è stato il dividendo della pace di Oslo: nel 1973 le spese
militari erano il 35% del Pil, a partire dagli anni’90 scendono al 9. In
maniera totalmente bipartisan, i governi assemblano il valore aggiunto di tutti
questi avvenimenti politici e investono nei nuovi incubatori. A partire dal
decennio scorso gli incubatori passano interamente ai privati. La nuova frontiera
delle startup ora è la ricerca nella neuro-biotecnologia (dietro c’è sempre
Shimon Peres).
Senza lo Stato, tecnologia e startup non avrebbero
avuto queste dimensioni. “E’ difficile che Washington possa avere influenza su
quello che decidono a Palo Alto. Israele è molto più piccolo e non è uno Stato
federale: per Gerusalemme è più facile determinare quel che accade a Tel Aviv”,
spiega Avi Hasson, il responsabile dell’ufficio del Chief Scientist del
ministero dell’Industria. Hasson, cioè il Chief Scientist in carne ed ossa, è
il regolatore del mondo delle startup e dei suoi finanziamenti: controlla i 25
incubatori del Paese, garantisce le infrastrutture e molto denaro. “Noi non
diamo soldi alle imprese ma ai progetti di ricerca e sviluppo”, precisa Hasson,
46 anni, venti dei quali da venture capitalist privato, triennio di leva nello
Shmoneh-Matayim. E’ l’Unità 8200 dove i giovani geni del Paese passano i tre
anni di leva obbligatoria a inventare cose. Prima della pillola con la nanocamera
per indagare nell’intestino, il suo creatore aveva concepito la microcamera
sulla punta delle bombe sganciate dall’aviazione.
Quando a Tel Aviv si usa la parola
“regolatore”, il significato è diverso da quello che intende la burocrazia a
Roma. “Il mio lavoro è anche garantire un certo controllo ma il compito
principale è fare di Israele un luogo attrattivo”, spiega il Chief Scientist.
“Se qui Cisco da’ lavoro a 2000 persone è perché Israele è diventato
strategico”. Fissate le regole, ogni università, ogni incubatore, ogni
istituzione privata è libera di fare ricerca e raccogliere fondi. Anzi, ha il
dovere di farlo. E’ soprattutto High-Tech e imprese che nascono piccole con una
grande idea. Get Taxi è incominciato con un app e ora non è solo più semplice
chiamare da un cellulare un’auto pubblica in tutto Israele, 200 black cabs se
sei a Londra e 200 taxi a San Pietroburgo. E’ nata una filosofia: “E’ più
facile e meno dispendioso andare da un punto A a un punto B, riduce il traffico,
è tutto più ecologico”, dice Nimrod May, Global VP marketing di Get Taxi. Ma
quando Dov Lautman di Delta, capitano storico dell’industria tradizionale,
stabilisce che “prima della stoffa c’è il corpo” e vende 300 milioni di canotte
e mutande nel mondo dopo un processo produttivo di 18 gradi d’innovazione,
anche la grande manifattura gode delle ricadute delle startup.
Quando Rafi Gidron attraversa la lobby del
David Intercon la gente si volta a guardare, qualcuno si avvicina per
stringergli la mano. Secondo la similitudine startup/kibbutz, Rafi per Israele
è un Moshe Dayan del XXI secolo. Fra le tante, nel 1997 ha creato una startup
chiamata Chromatis che nel 2000 Lucent ha conprato per 4,7 miliardi di dollari:
la più grande acquisizione della storia d’Israele. Ora è impegnato nel brain
technology ma la sua passione è essere un “Angel”. Diversamente da un venture
capitalist, investe il suo denaro in piccole startup coraggiose. “Per me la
cosa più eccitante è essere imprenditore”, dice. Passati i 50, secondo lui
aiutare i giovani è il modo migliore per continuare ad essere giovani.
Vent’anni fa, quando è iniziata l’avventura
israeliana delle startup, “un ingegnere di Tel Aviv guadagnava un quinto del
salario di un ingegnere americano”, spiega Eyal Reshef, fondatore di Israel
Media Mobile Association. “Ora non è più così: costa il 110% in più”. E’ un
segno di benessere, di maturità. E l’avviso che bisogna inventare qualcos’altro
di nuovo, vincere altri Nobel per soddisfare gli investitori e continuare a far
felici le mamme d’Israele.