Se la questione è lo shale oil americano, nessun problema, dice Khalid al-Falih, Ceo di Aramco, la compagnia che ha il monopolio del petrolio saudita. Nessun problema nemmeno se la questione è lo shale gas, aggiunge il ministro dell’Energia del Qatar, Saleh al Sada.
Per il saudita come per il qatarino, il travolgente ingresso americano nella produzione e nel mercato mondiale dell’energia, attraverso la frantumazione delle argille bituminose – lo shale, l’energia non convenzionale – non cambieranno niente. Resterà il placido panorama di un’industria fino ad ora sinonimo di deserto e mare arabico, petroldollari, ricchezze incalcolabili, fondi sovrani senza limite di contanti nell’acquisto dell’argenteria industriale e finanziaria europea. Soprattutto sinonimo di una geopolitica mediorientale apparentemente immutabile.
La spiegazione del saudita al-Falih, il cui Paese oggi produce 12,5 milioni di barili di greggio al giorno, è che l’arrivo degli americani renderà il mercato più “pragmatico e razionale” riguardo alle politiche energetiche dei governi di tutto il mondo. Quella del qatarino al Sada, esportatore di 77 milioni di tonnellate di gas naturale liquido l’anno, è che la produzione americana servirà solo per i consumi interni: non gli porterà via clienti.
Sembrano le spiegazioni piuttosto inadeguate di chi crede di avere per sempre pozzi e giacimenti senza fine. Qui al World Economic Forum mediorientale, sulle rive giordane del Mar Morto, è invece della caducità di questa ricchezza che si è anche parlato. Per il Fondo Monetario Internazionale la maturazione dei principali giacimenti sauditi e l’ingresso dello shale oil americano sui mercati, sarà una delle ragioni di una nuova caduta della crescita economica del Medio Oriente. Sulle potenzialità degli Stati Uniti, inesplorate fino al 2008, c’è ancora poca chiarezza. Per il gas la produzione dovrebbe arrivare all’equivalente quantità di 10 milioni di barili petroliferi; per il petrolio addirittura a 4 miliardi (esatto, 4mila milioni!) al giorno di barili a partire dal 2022, sostiene Citigroup. Probabilmente le cifre sono esagerate. Tuttavia, per quanto inferiore, la produzione a pieno regime sarà sempre notevole, sufficiente per rivoluzionare il mercato energetico. Abbastanza perché si parli di “Saudi America”.
Un cambiamento di queste prospettive non può
lasciare le cose come stanno, la geopolitica non può restare quella che
conosciamo in questa regione. Per esempio: se nel 2003 George Bush avesse
saputo dei giacimenti del suo Far West, avrebbe invaso l’Iraq? Uno degli scopi
primari di quell’impresa era il controllo del petrolio iracheno e, di conseguenza,
quello dei mercati.
Per molti il disimpegno dal Medio Oriente
dell’amministrazione Obama è figlio del gas e del petrolio non convenzionali.
Se ha guidato “da dietro” la liberazione della Libia; se non esiste un processo
di pace degno di questo nome fra Israele e Palestina; se gli Stati Uniti
rifiutano di fare qualcosa nel massacro siriano e nella crescente
destabilizzazione irachena; se si sono affidati ai Fratelli musulmani per
democratizzare Egitto e Tunisia. Questo generale rompete le righe è avvenuto
perché non è più necessario intervenire con uomini, mezzi e risorse per
garantire il flusso petrolifero e i prezzi dalle instabilità croniche del Medio
Oriente.
L’analisi è superficiale. L’interesse
americano di garantire la sicurezza e la stabilità di alcuni Paesi chiave –
Arabia Saudita, Qatar, Egitto e resto del Golfo, in ordine d’importanza.
Israele è un’altra storia – va oltre il petrolio. E’ un assunto strategico a
priori. Nei prossimi 10 anni gli Usa forniranno all’Arabia Saudita armamenti
per 100 miliardi di dollari: l’affare più grande nella storia del business
militare. Vendere armi di quel livello, non è solo mercato: si trasferiscono
tecnologie e istruttori ad alleati dei quali ci si fida.
Ora, in modo più o meno diretto, con più
determinazione ora con meno, nemmeno gli Stati Uniti grondanti di petrolio
usciranno dal Medio Oriente. Resteranno parte integrante del suo panorama, come
il deserto e le palme. Ma per qualsiasi presidente sarà sempre più difficile
convincere un’America piena di petrolio, dopo aver spiegato per decenni che i
ragazzi erano nel Golfo perché a casa si potesse comprare benzina a meno di
quattro dollari il gallone. Col tempo la determinazione sarà diversa ed è
meglio che gli alleati lo sappiano e si preparino. Perché lo hanno capito anche
i nemici.