“Il popolo, l’esercito, la polizia: siamo tutti una cosa sola”, gridava ieri un manifestante in piazza Tahrir. Non erano questi gli slogan che si sentivano fino a non molto tempo fa in quella piazza simbolica. Anche l’età oltre i 60 di quel manifestante, stonava con l’immagine giovanile e rivoluzionaria della protesta contro il regime. Una volta a Tahrir si leggevano slogan come “Abbasso il presidente, chiunque sarà eletto”. A prima vista indicava un certo disorientamento: era invece l’affermazione di una libertà sconosciuta che gli arabi non avevano mai provato prima d’allora.
E’ tutto finito. L’affrancamento dai vecchi poteri è stato dato in dosi esagerate e troppo repentine. I danni sono stati superiori ai benefici: i giovani sono stati incapaci di uscire dalla piazza, diventandone reduci permanenti a dispetto della giovane età; le opposizioni così litigiose e politicamente mediocri non hanno saputo formare una alternativa politica, lasciando fare ora ai giudici, ora ai militari; due camere parlamentari, un presidente e una Costituzione sono stati fatti e smontati nello spazio di un anno.
Il punto più alto di democrazia, alla fine, è stato il breve governo dei Fratelli musulmani, che affidava più a Dio che alle sue scarse qualità civiche la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici del Paese. Per quanto modernizzato e salito al potere a suffragio popolare, è una visione medievale di governo.
Tutto questo fra scioperi, manifestazioni,
occupazioni permanenti di piazza Tahrir svilita da totem a camping. Violenze,
insicurezza, disoccupazione, regioni come il Sinai precipitate nell’anarchia.
Così alla fine, come la Storia quasi sempre insegna, ha vinto la maggioranza
silenziosa che gridando “popolo, esercito e polizia” non ha affermato una forma
indigena di democrazia laica ma una restaurazione militare. Un’altra stagione
Mubarak, probabilmente più moderna e un po’ riformata. Forse.
La più grande rivoluzione fra le rivoluzioni
promesse dalle Primavere arabe, era stata riportare i militari dentro le loro
caserme. Non solo in Egitto. Per la prima volta in una settantina d’anni, era
sembrato che nel mondo arabo finalmente il potere civile prendesse il
sopravvento su quello dei militari. Militari nel significato più ampio del
termine: forze armate, polizie, mukhabarat, i servizi segreti. Quegli apparati
di sicurezza spropositati e privilegiati, dalle spiccate tendenze golpiste al
punto da organizzare colpi di stato anche contro se stessi, causa principale
del debito di democrazia di quei Paesi.
Ora sono le illusioni delle Primavere ad essere
finite nelle caserme, sbattute dentro e messe sotto chiave dai militari. In
Egitto è in corso una evidente restaurazione nella quale non è più il popolo
che mette al suo servizio le forze armate ma il contrario, come ai tempi di
Mubarak. Gli omicidi politici dei leader laici in Tunisia forse dimostrano la
capacità eversiva degli estremisti qaidisti; forse, invece, la riorganizzazione
dei vecchi apparati di sicurezza: la strategia della tensione non l’abbiamo
inventata noi, negli anni Settanta.
In Siria dove i militari non hanno mai perso
il potere sorreggendo la famiglia Assad – una loro emanazione -, si è creato un
paradosso: alla fine tendiamo ogni giorno di più ad ammettere che siano
preferibili loro, se l’alternativa è una forma arabo-levantina dell’estremismo
religioso dei Talebani. Meglio l’ordine brutale di Damasco che la brutalità
disordinata delle milizie sunnite contrarie al regime.
I regimi militari o polizieschi delle
repubbliche arabe nate dalla decolonizzazione, a partire dagli anni Cinquanta
del secolo scorso, erano modernisti: affermavano il primato dello Stato civile
sulla fede e i tentativi islamisti di affermare soluzioni politiche. Ma col
tempo si sono loro stessi trasformati in una religione: laica tuttavia
intoccabile e irriformabile quanto gli editti coranici. Ovunque siano andati al
potere, i militari sono stati i più duri nemici della fratellanza musulmana che
era e rimane la più organizzata internazionale dell’Islam politico del Medio
Oriente.
La grande battaglia in Egitto e non solo,
dunque, non riguarda tanto la democrazia, lo Stato laico, i diritti civili, il
parlamentarismo e la costituzione. E’ tra apparato militare e Islam politico:
le uniche “forze sociali”, essenzialmente non democratiche, capaci di governare
quei Paesi. Sono due religioni e come tali non sono fungibili l’una con l’altra
ma mortalmente alternative. E’ difficile travisare le dichiarazioni e i
comportamenti dei militari egiziani di questi giorni: vogliono semplicemente eliminare
a qualsiasi prezzo dalla faccia dell’Egitto il movimento dei Fratelli
musulmani.
Il commento è già uscito sull'edizione cartacea del Sole-24 Ore.