Prima che siano la selezione dei leaders, la forza degli eserciti, la capacità di produrre e guidare i commerci a mostrarne i segni, il declino di un impero inizia da un fondamento: la tenuta morale. Roma ha incominciato a cadere quando è venuta meno la ragione di poter dire “civis romanus sum” a viso aperto. Quell’asserzione ciceroniana che John Kennedy poté legittimamente ripetere in latino e con orgoglio nel 1963, davanti al Muro di Berlino, nel suo famoso discorso Ich bin ein Berliner.
Forse Barack Obama aveva già incominciato a ridurre il gigantesco apparato di controllo e di repressione che dall’11 Settembre ha dato sicurezza all’America, togliendole in cambio alcuni dei suoi essenziali valori costitutivi. Cinque anni di presidenza, tuttavia, dovrebbero essere sufficienti per imporre una riforma che almeno vieti di spiare i migliori alleati.
Delle due l’una. Obama non è un leader ed è meglio che fra tre anni riconsegni con un gesto di umiltà il suo Nobel per la pace; oppure il deep state, il potere degli interessi costituiti, anche in America è più radicato e immodificabile di quello scelto ripetutamente dai cittadini: dallo sceriffo di contea al presidente degli Stati Uniti. Quell’apparato militare-industriale dal quale Dwight Eisenhower, un ex generale, invitava Kennedy a diffidare; quello Stato profondo che nonostante la moderazione diplomatica di Ronald Reagan, George Bush padre e Bill Clinton, non ha rinunciato a sfruttare con arroganza imperiale e miopia geopolitica la storica vittoria sull’Unione Sovietica, creando le premesse della Russia di Putin.
Nemmeno
la buonanima di Osama bin Laden si deve essere immaginato un tale successo
politico, preparando gli attentati dell’11 Settembre. Da allora, l’unica
vittoria certa –ma non definitiva – è aver tolto ai terroristi islamici la
capacità logistica di compiere attentati negli Stati Uniti e in Europa
Occidentale. Per tutto il resto, dove non è sconfitta non è nemmeno vittoria.
Il qaidismo ha stabilmente influenzato i talebani afghani e pakistani; in Iraq,
dove prima non c’era, impedisce a quel Paese di diventare normale; ha
influenzato ogni Primavera araba fino a rendere preferibile la sopravvivenza in
Siria del regime di Assad.
Ma se negli Stati Uniti il fantasma di
al-Qaida non esiste militarmente, da 12 anni erode lentamente le fondamenta delle
sue certezze democratiche. Non tanto diffondendo le sue folli idee nella mente
d’individui deboli della comunità musulmana. I suoi infiltrati più efficienti
sono la prigione di Guantanamo; sono i droni che salvano la vita dei soldati
americani ma per uccidere terroristi uccidono centinaia di civili, vittime dei
loro persecutori e contemporaneamente dei loro salvatori; è la repubblica
autonoma dell’Nsa che arriva a spiare i capi dei governi amici; è la
convinzione che in nome dell’antiterrorismo sia legittimo tutto: violare i
diritti fondamentali dei cittadini americani, limitare le loro libertà, uccidere
anche degli innocenti, usare i mezzi della “Guerra al terrore” per vantaggi
commerciali, per difendere interessi economici, per continuare a vendere più
prodotti e più armi degli altri.
Perché qaidisti a parte, è comprensibile
sospettare che il nostro Grande Fratello dell’Nsa sia un parente interessato e
avido. Che oltre alla sicurezza degli americani pensi anche agli affari delle
imprese americane; che ascoltando le conversazioni trans-mediterranee, non cerchi
solo di sapere i progetti delle cellule islamiche ma anche quello che fa l’Eni
con i suoi investimenti.
Cara vecchia America, se ci sei ancora batti
un colpetto in segno di amicizia. Noi europei te ne stiamo dando fin troppi,
disinteressatamente. Compreso il biglietto della partita Washington-San
Francisco del 24 novembre, che ho già comprato sapendo di andare al FedEx Field
a veder perdere i Red Skins, la mia squadra, il cui nome è contestato dagli
indiani d’America. Tengo a una squadra politicamente scorretta. Come gli Stati
Uniti.