Un Mandela d’Israele e un Gandhi di Palestina. Non ci contate.

Madiba mahatma  Nel disinteresse quasi generale, in questi giorni israeliani e palestinesi hanno ripreso a spararsi dalle parti di Gaza. Razzi, tunnel, bombardamenti mirati, quattro miliziani di Hamas uccisi, cinque militari israeliani feriti. Il solito, insomma.

  Altrove John Kerry sta cercando di dare un senso al negoziato di pace. La settimana scorsa Susan Rice, la nuova consigliera per la sicurezza nazionale, aveva corretto al ribasso le ambizioni mediorientali dell’ultimo triennio della presidenza Obama, fissando tre obiettivi: un accordo finale per il conflitto israelo-palestinese; qualcosa di consistente nella trattativa con l’Iran; gestione degli avvenimenti siriani e egiziani nel momento in cui accadono: una specie di minuto mantenimento delle Primavere arabe.

  Il più irraggiungibile dei tre obiettivi è un accordo finale fra israeliani e palestinesi: non solo nel tempo che resta all’amministrazione Obama ma anche in quello dei prossimi due presidenti. Ad essere ottimisti. Credo si capisca che io non lo sono. Rice ha inserito la “Questione palestinese” nel programma solo per l’insistenza del povero Kerry, a quanto sembra l’unico a crederci.

  Non vi voglio tediare sulle technicalities del negoziato, ognuna
delle quali in realtà è un macigno che non si fa sbriciolare né aggirare. Ma
nulla è risolvibile e tutto lo è: dipende solo dalla qualità dei leaders che
devono sbatterci la testa. Quelli israeliani e palestinesi sono leaders senza
qualità. La soluzione sarebbe se il sionismo sapesse produrre – che so – un
Madiba Mandela e il risorgimento palestinese (l’interfaccia del sionismo) un Mahatma
Gandhi.

  Quest’estate, quando sembrava che Madiba
stesse per morire, Yitzhak Lior chiedeva su Haaretz ai lettori: “Voi avreste
liberato Mandela?”, come fecero i nazionalisti bianchi afrikaners. La risposta
che Lior dava era no. Un paio di settimane più tardi Amira Hass cercava di
spiegare “Perché un Gandhi palestinese non è mai emerso né mai, probabilmente,
accadrà”.

  Se non sono mai stati prodotti un Madiba
israeliano né un Mahatma palestinese (a tutti noi anderebbe benissimo anche un
Mandela palestinese e un Gandhi israeliano), è per l’incapacità dei due popoli
di uscire davvero dalla loro dimensione di nemici. A settembre erano passati
vent’anni dagli accordi di Oslo: nessuno li ha ricordati, ancor meno celebrati.
Nonostante due decenni di negoziato e di contatti diretti, proclamandolo
apertamente o intimamente pensandolo, israeliani e palestinesi restano convinti
che un giorno avranno il bottino pieno della partita. Non una pace equa e
onorevole per tutti. No: i primi convinti che uno Stato palestinese non nascerà
mai, i secondi che prima o poi gli israeliani potranno essere ributtati a mare.

  I sondaggi dell’una e dell’altra parte
ripetono che una solida maggioranza di israeliani e palestinesi vuole una
soluzione pacifica. Ma se si scende nei dettagli del compromesso – le colonie,
Gerusalemme, le frontiere, il diritto al ritorno dei profughi, l’ebraicità di
Israele, ecc.. – quella maggioranza si erode al punto da rendere impossibile il
compromesso. Ognuno accetta l’esistenza dell’altro ma solo alle sue condizioni.

  Esiste invece solo una coraggiosa e
commovente minoranza sinceramente pronta a tutti i compromessi necessari, che tuttavia
non vincerà mai un’elezione né produrrà uomini o donne straordinari come
Mandela e Gandhi. Straordinari condottieri, capi di popoli ambiziosi ma non
veri costruttori di pace.

  Abbagliati dal loro presente – lo smisurato
potere militare, un’economia dalle tecnologie avanzate, il caos nel mondo arabo
– gli israeliani si illudono che così sarà per sempre. Schiacciati dal loro
disperato millenarismo, i palestinesi sono sedotti dall’idea che un giorno Dio
o un nuovo Saladino li porterà alla vittoria. 
 

 

 

P.s.
Se scendete da Gerusalemme nella valle del Giordano e girate a sinistra, prima
di Gerico la strada che porta al ponte di Allenby è intitolata a Gandhi.  Ma non ha nulla a che vedere con il Gandhi
autentico. Quello israeliano era l’ex generale Rehavam Ze’evi che i suoi
soldati chiamavano Gandhi per il cranio rasato e la magrezza. Da politico
Ze’evi aveva fondato il partito razzista Modelet che invocava il trasferimento
dei palestinesi di Cisgiordania in una non meglio precisata “nazione araba”.
Nel 2001 Ze’evi fu assassinato da due palestinesi all’hotel Hiatt, sul Monte
Scopus.

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  • alramli |

    “Alramli in israele ci sono ragazzi e ragazze nati e cresciuti lí e che non andranno via!hamas è la continuazione dalla non volontà di cercare una vera pace!!!”
    Ma chi le ha mai detto il contrario? Ma li legge i posti degli altri prima di scrivere? Nessuno ha mai scritto che i ragazzi israeliani devono andarsene e men che meno che Hamas sia un’organizzazione dedita al compromesso. Rilegga ciò che avevo postato invece di scrivere a vanvera.

  • Andrea |

    Alramli in israele ci sono ragazzi e ragazze nati e cresciuti lí e che non andranno via!hamas è la continuazione dalla non volontà di cercare una vera pace!!!peraltro non mi risulta io abbia scritto che da una parte c’è solo il bene e dall’altra solo il male!hamas è dalla parte palestinese uno di questi mali visto che nel proprio statuto dicono chiaramente di rifiutarla!la religione e l’ignoranza sono 2 dei più grandi ostacoli alla pace!

  • alramli |

    Andrea, hamas è stata fondata molti anni dopo la costruzione dei primi insediamenti, molti anni dopo le espulsioni di al jura e al majdal (a gaza sono quasi tutti profughi, sovente imbarcati in autobus e trasferiti nel corso di una notte). Hamas è un risultato, non un punto di partenza.
    Inoltre il fatto che esista Hamas, che non è più estremista di Lieberman e simili, non giustifica in alcun modo lo sfruttamento delle risorse energetiche, la costruzione di insediamenti e l’umiliazione di milione di palestinesi nei territori occupati. i palestinesi sono storicamente uno dei popoli più secolari nel mondo arabo, di certo non fanatici religiosi.
    lei conosce poco la storia e di certo non ha mai vissuto in loco. last but not least, per sua informazione e citando uri avnery, “No one asked the Arab Palestinians whether to accept or reject anything. If they had been asked, they would probably have rejected partition, since – in their view – it gave a large part of their historical homeland to foreigners. The more so, since the Jews, who at the time constituted a third of the population, were allotted 55% of the territory – and even there the Arabs constituted 40% of the population.”

  • carl |

    Come Lei dott Tramballi anch’io sono propenso a dubitare che si trovi/voglia trovare una soluzione e per gli stessi motivi che Lei elenca
    – nonostante i sondaggi parlino dell’esistenza di una solida maggioranza di ambedue le parti favorevoli ad un accordo
    – la minoranza veramente decisa a raggiungere un accordo concreto, non raggiungerà mai ruoli, nè funzioni politico-decisionali
    -i “decisori” sono in effetti “abbagliati” dai mezzi militari, economici, tecnologici e dall’incondizionato sostegno USA
    Dunque?
    Da una parte i patiti del noto proverbio arabo:”Siediti pazientemente sulla riva del fiume e un giorno vedrai passare il corpo de tuo nemico..”
    Ma anche gli altri restano convinti come Lei dice che un giorno avranno partita vinta, senza pagare alcun prezzo, nè cedere alcunchè..
    Situazione di stallo dunque?
    L’ultima novità l’ho sentita oggi. Il progetto di creare un “limes” sul fiume Giordano.. E se i difensori del nuovo “limes” in questione un giorno dovessero ricevere da qualche “bunker” l’ordine di “resistere fino all’ultimo e morire sul posto” ??

  • Henri |

    Afrikaner News
    http://WWW.HENRILERICHE.COM

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