Nel sofisticato sistema di protezione del fronte interno, il primo avviso viene dato su ogni telefono cellulare in tutto il paese. E’ un’allerta: missili sono partiti dal territorio iraniano. Pochi minuti più tardi, appena viene individuata la direzione degli ordigni, scattano le sirene del vero allarme, un suono sinistro: correte nei rifugi o nelle stanze blindate che la gente chiama mamad, acronimo ebraico del burocratico “Spazio protetto residenziale”. Negli edifici più moderni il mamad è in ogni piano, a volte in ogni appartamento.
Le sirene lanciano l’allarme solo nelle aree del paese che stanno per essere colpite. Per questo l’altra notte, prima alle 22 e poi alle 2.45, a Gerusalemme era stata data solo l’allerta telefonica e non anche il resto. Secondo i calcoli dell’Home Front la città sarebbe stata risparmiata dalle due ondate di missili iraniani che invece hanno provocato morti e distruzione a Bat Yam, a Sud di Tel Aviv e a Haifa, su a Nord.
L’avviso va preso come un atto di fede ma a quel punto anche nella Gerusalemme risparmiata è comunque difficile tornare a dormire. La notte precedente erano suonate le sirene e infatti il cielo buio sopra le nostre teste era stato illuminato da una battaglia d’Inghilterra fra missili e razzi anti-missile al loro inseguimento.
Tuttavia è difficile considerare Gerusalemme prima linea di questa guerra, quanto Tel Aviv. La ragione è che non si tratta di una ma di due città: quella ebraica a Ovest e la palestinese a Est, divise da una frontiera non segnalata come tra due paesi, eppure ancora più concreta e profonda. Fino a che avevano avuto la capacità di farlo, sia Hamas da Gaza che Hezbollah dal Libano, lanciavano i loro ordigni cercando di evitare Gerusalemme per non colpire la popolazione palestinese e i luoghi santi dell’Islam. Cosi ora gli iraniani. Ma non è una regola della fisica.
Gli ebrei dovrebbero essere riconoscenti ai loro concittadini arabi. Ma è troppo poco per attenuare un inestinguibile odio contraccambiato. Costretti alla convivenza, il massimo sforzo che possono fare è ignorarsi. Il tempo che a Tel Aviv spendono in spiaggia, i gerosolimitani lo passano a pregare in sinagoga, moschea e in chiesa. Vivere in mezzo a loro è interessante ma non del tutto salutare.
Guardare a questa nuova guerra da Gerusalemme, è insolito: non sei al fronte ma un po’ si; i missili non arrivano ma qualcuno cade; c’è l’odio, componente essenziale di ogni belligeranza. Qui in realtà è fra due popoli nemici per un’altra contesa. Ma i conflitti sono ormai così tanti e interconnessi – Gaza, Libano, Siria, ora Iran, sicurezza d’Israele, causa palestinese – che si sovrappongono. I francesi chiamavano “Dro^le de guerre” i primi mesi della Seconda Guerra mondiale, in attesa dell’attacco nazista. Anche questa a Gerusalemme è una strana guerra.
Da che è iniziata, le due comunità, insofferenti l’una verso l’altra, stanno vivendo allo stesso modo, provando le stesse incertezze sul futuro. Forse per la prima volta dai tempi degli assedi medievali, le autorità hanno chiuso la città vecchia. Gli ingressi che ancora conservano le grandi porte antiche sono stati sbarrati; negli altri la polizia fa entrare solo chi dimostra di abitare dentro la città murata.
A Salah ed-Din e Jaffa, le strade principali della città palestinese e di quella ebraica, c’è lo stesso numero di negozi chiusi e aperti; l’uguale scarsissima presenza di passanti e di compratori; lo stesso anomalo silenzio in due strade di solito caotiche.
Dove Salah ed-Din si confonde con Nablus road, bisognava attendere a lungo davanti al piccolo banco della migliore shawarma di Palestina, quanto meno di Gerusalemme. Ieri è stato rapido farsi servire. Nell’altra città, al mercato ebraico di Mahane Yehuda, in fondo a Jaffa, Oz non ha neanche aperto la sua pregiata pescheria. Il figlio Tomer, braccio destro al banco e soldato riservista, è stato di nuovo richiamato.
Sono segnali di una quotidianità interrotta, sostituita dalla paura degli abitanti, dall’incertezza di non sapere cosa potrà accadere questa notte. Sono bastati due giorni di guerra per capire che neanche l’avanzato sistema anti-missile israeliano è del tutto impenetrabile. Se gli iraniani lanciano contemporaneamente centinaia di missili, qualcuno fatalmente riesce a passare. Quindi anche Gerusalemme, sia Est che Ovest, può finire in prima linea.
E’ tuttavia una paura composta. Di questi momenti di pericolo la città ha una consuetudine storica: prima le guerre arabo-israeliane, poi la prima e la seconda Intifada palestinesi. Una volta si scavavano le trincee nelle piazze. E ora il nuovo venuto, l’Iran, che in realtà è un convitato di pietra: finche c’era lo Scià, sosteneva le guerre d’Israele; da quando sono al potere gli ayatollah ha sempre sostenuto i nemici dello stato ebraico.
Perché è difficile trovare qualcosa di veramente nuovo fra le cose che accadono a Gerusalemme. Ieri pomeriggio è scattato ancora l’allarme sui cellulari, poi hanno suonato le sirene. Da qualche parte i missili-anti-missile sono entrati in azione. La migliore sintesi di questa giornata che si ripeterà domani e poi ancora, è di un vecchio amico nato nel ghetto di Roma ed emigrato a Gerusalemme molto tempo fa: “E’ a guera”.