“Non devi scegliere una parte con la quale soffrire, non c’è una gara di lacrime e di dolore”, spiegava lo scorso giugno Rachel Goldber-Polin in un’intervista alla Rai. “Se lo facessimo, commetteremmo un’ingiustizia”. Rachel, la madre di Hersh, uno dei sei ostaggi israeliani uccisi l’altro giorno, non faceva distinzioni tra la sua sofferenza e quella dei palestinesi di Gaza, sotto le bombe.
Sono invece un insulto all’umanità e alla verità dei fatti i commenti di Bibi Netanyahu: “Chiunque uccide ostaggi non vuole un accordo”. Ricorda la “verità alternativa” inventata dai consiglieri di Donald Trump per giustificare le menzogne del capo.
La verità di questo ennesimo capitolo di una grande tragedia che sembra senza fine, non è solo che quei sei ragazzi siano stati uccisi da Hamas. L’altro pezzo di verità sono le responsabilità del premier israeliano e del suo governo di estremisti, nella morte di quelle sei vittime, di altri israeliani precedentemente morti in cattività e del destino di quelli ancora nelle mani di Hamas.
Tre dei giovani uccisi erano nella lista degli ostaggi da liberare, approvata da Hamas. Sarebbero già a casa se Netanyahu avesse accettato una delle tante tregue limitate dei combattimenti, proposte dai negoziatori. Ma non lo ha mai fatto né mai lo farà. Una richiesta fondamentale per iniziare la tregua era il ritiro israeliano dal corridoio Philadelphi, che separa Gaza dal confine israeliano. Finita la tregua, gli israeliani lo rioccuperebbero in pochi minuti. Nonostante l’opposizione del ministro della Difesa, Yoav Gallant, Bibi ha trasformato in legge l’occupazione di Philadephi. Altri ostaggi moriranno, aveva ammonto Gallant.
I sei e tutti gli altri morti, sono anche vittime della presunzione del governo di liberare gli ostaggi con la forza. Dei 240 rapiti da Hamas il 7 ottobre, solo otto sono stati liberati dall’esercito in operazioni sanguinose per i civili palestinesi. Altri tre giovani che si erano liberati da soli, sono stati uccisi per sbaglio dai loro commilitoni.
Il fallimento della forza è parte del catastrofico insuccesso di Netanyahu, secondo il quale Hamas sarebbe stato sradicato da Gaza. Sono passati 11 mesi e i terroristi sembrano essere ancora radicati nel loro territorio, come avevano previsto i militari. Di tanto in tanto lanciano missili verso Tel Aviv.
Per una buona parte dell’umanità la guerra è morte. Per Netanyahu è sopravvivenza. Se accetta la tregua che tranne lui vogliono tutti (americani, cinesi, russi, arabi, Onu, Ue, Forze armate israeliane e una parte cospicua del paese), cade il governo. Nell’autodafé che hanno in mente verso i palestinesi, i suoi alleati nazional-religiosi credono di essere a un passo dalla versione ebraica dell’autocrazia iraniana. Quest’ultima l’atomica non l’ha ancora, gli israeliani si: un arsenale piccolo ma tecnologicamente avanzato. Dopo il 7 ottobre un ministro aveva proposto di usarlo su Gaza.
Quanto può durare il potere nefasto di un leader come Netanyahu? Le grandi manifestazioni spontanee e lo sciopero generale proclamato contro di lui sono stati imponenti. Dovrebbero segnalare un inizio della fine. Ma di una fine lontana. Israele è una democrazia: più per la maggioranza ebraica che per il 20% degli arabo-israeliani, ma è una democrazia.
I militari hanno sempre avuto un peso politico notevole. Ma un golpe è estraneo ai loro valori. Una crisi di governo, dunque, accade quando viene meno la maggioranza parlamentare. Non se ne vedono i segnali. La Knesset, il parlamento, è chiusa: la sessione autunnale aprirà dopo le feste ebraiche, verso fine ottobre.
Almeno prima della morte dei sei giovani ostaggi – che ha straziato Israele tranne Bibi e i suoi alleati – i sondaggi avevano dato sorprese. Se si votasse, il Likud, il partito di Netanyahu, conquisterebbe la maggioranza relativa: risicata ma sufficiente perché Isaac Herzog, il presidente, affidi a lui l’incarico di formare un governo.
Mai come oggi Israele è spaccato in due. Lo era già prima della guerra, nella disputa sull’indipendenza del sistema giudiziario dalla politica. La guerra, le responsabilità di Netanyahu e il sangue versato del quale è responsabile, hanno scavato un solco che sarà difficile ricolmare. Israele è in pericolo.