Commedia degli errori – in realtà una tragedia – parte seconda: come gli Stati Uniti coinvolgono il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per approvare una fine del conflitto che non c’è. Non c’è nemmeno un cessate il fuoco e neppure una tregua. Ancor meno una vera intenzione delle due parti in conflitto di volere entrambe qualcuna di queste ipotesi.
L’altra notte il Consiglio di sicurezza ha votato a favore del piano di pace presentato dagli Stati Uniti. L’amministrazione americana continua a dire che il piano originale è dello stato ebraico, mentendo a fin di bene e ad eventuale beneficio della campagna presidenziale contro Donald Trump. Per dare una forma di autorevolezza a questo dolce inganno, l’amministrazione Biden ha voluto che venisse coinvolto, votando una risoluzione formale, anche il sinedrio più alto dell’Onu.
E’ la risoluzione numero 2788 (2024): giusto per ricordare quanta inutile acqua è passata sotto i ponti di questo conflitto, la risoluzione 242 (1967) e 338 (1974) chiedevano il ritiro immediato israeliano “da” territori occupati. Non sono mai state applicate. Piuttosto ci sono state altre guerre e altre intifade.
Il piano americano è in tre fasi. La prima, la più importante, prevede sei settimane di tregua, la liberazione di ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi, il ritiro israeliano da alcune aree di Gaza e l’ingresso di aiuti umanitari nella striscia. Fino a qui Bibi Netanyahu non era contrario, pur evitando qualsiasi forma di entusiasmo. Ma Joe Biden, trasformando una zucca in cocchio regale, ha aggiunto che durante le sei settimane le parti e la diplomazia internazionale avrebbero trattato per trasformare la tregua (appunto la zucca) in cessate il fuoco permanente (la carrozza dorata). Cioè la fine del conflitto.
Su questo Netanyahu non ci vuole sentire. Al Palazzo di Vetro, a New York, l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan, un super-falco, non è intervenuto. Ha parlato una diplomatica di rango inferiore, ribadendo che la guerra non finirà fino a quando Hamas non sarà eliminato.
Antony Blinken, il segretario di Stato Usa arrivato nella regione per l’ennesima volta, ha detto che dopo la risoluzione Onu la palla è nel campo di Hamas: tocca a loro dire se sono d’accordo perché le cose vadano verso una soluzione. In realtà non risulta che Netanyahu abbia mai avallato il piano per come l’hanno esposto gli americani. La palla è, come sempre, ancora in entrambi i campi.
Ieri le agenzie stampa hanno dato grande risalto al presunto “si” di Hamas. Lo avrebbe detto al Cairo Sami Abu Zuhri dell’ufficio politico del movimento islamico: “Siamo pronti a negoziare”. Ma è come se ai tempi dell’Unione Sovietica, anziché Leonid Breznev, avesse parlato su un tema decisivo per le sorti del paese un membro supplente del Politburo, appena arrivato dalla Bashkiria.
La tregua e la trattativa per una pace diventeranno concrete se per conto d’Israele lo dirà Bibi Netanyahu; e da quella palestinese parleranno Ismail Haniyeh, la parte più politica di Hamas in esilio o – ancora più importante – Yahya Sinwar attualmente il capo dei capi del movimento.
Intanto sul campo la guerra continua come sempre, ieri era il giorno 250. Hamas continua a trattare la popolazione palestinese come un’arma tattica, spendibile a migliaia in nome della causa. Israele invece elimina oltre 200 palestinesi molti dei quali civili (lo dicono anche gli americani) e bombarda un quartiere per liberare quattro dei suoi ostaggi. Se Hamas ha ragione, l’operazione avrebbe involontariamente provocato la morte di altri tre ostaggi israeliani.
“Tutte queste azioni da entrambe le parti potrebbero equivalere a crimini di guerra”, sottolineano le Nazioni Unite. Ma non sembra che la minaccia preoccupi Sinwar né Netanyahu. L’obiettivo del primo è resistere fino a sopravvivere ed essere protagonista anche del dopoguerra. Quello di Netanyahu è di stravincere o di continuare a tempo indeterminato. Il primo è un obiettivo teorico, Bibi sa di non poter piegare Hamas. Il secondo è pratico: la questione che conta è restare al potere, pagano gli israeliani, non lui.
E’ la stessa bruciante ambizione di Sinwar. E’ difficile immaginare che gli Stati Uniti né qualsiasi altro protagonista della scena internazionale, abbia tanto potere e credibilità da costringere i due nemici a piegarsi.