La sera del 14 ottobre 1964, il Presidium del Comitato Centrale guidato da Leonid Breznev, accettò con voto unanime la richiesta “volontaria” di dimissioni di Nikita Khrushchev. L’inaspettato ritiro, spiegava il comunicato del Presidium, era dovuto “all’età avanzata e alla cattiva salute” del leader sovietico. Breznev prendeva il suo posto da segretario del partito e leader dell’Unione Sovietica; primo ministro diventava il suo braccio destro Alexey Kosygin.
Un paio di giorni prima Khrushchev era stato fermato all’aeroporto moscovita di Vnukovo, al suo arrivo da Pitzunda, sul Mar Nero, dove era stato in vacanza. A Vladimir Semichastny, il capo del Kgb che lui aveva nominato, non aveva opposto resistenza. Non ci furono processi pubblici, plotoni d’esecuzione né purghe nel paese, come era nella tradizione. Non fu neanche un golpe: al leader i vertici del partito rimproveravano la mancanza di collegialità nelle scelte politiche e il comportamento eccessivamente enfatico che contrastava con il grigio e lacustre understatement di regime dopo il lungo grand guignol stalinista.
A Khrushchev furono concessi una dacia fuori Mosca, una pensione di 500 rubli e un’auto. Alla sua morte, sette anni più tardi, non fu celebrato un funerale di stato né gli fu dato un posto sotto le mura del Cremlino, alle spalle del mausoleo di Lenin. Il vecchio statista fu però sepolto al cimitero di Novodevichy, accanto a Gogol, Chekhov e Bulgakov.
Sul piano internazionale non cambiò nulla. La Guerra Fredda proseguì senza ulteriori crisi come quella dei missili di Cuba del 1962. Ci furono guerre in Africa, Medi Oriente e Asia. Ma in Europa il confronto Est-Ovest si stabilizzò fino a diventare una garanzia di pace per il continente. Nel 1976 a Helsinki furono firmati accordi fondamentali per la sicurezza e la cooperazione, capaci di resistere alla fine della Guerra Fredda ma non all’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina, 22 anni più tardi.
La storia si può ripetere? La defenestrazione di Khrushchev potrebbe essere un buon esempio per risolvere la guerra in Ucraina, la strada perché la Russia, l’Europa e il mondo si liberino di Putin? Segni coraggiosi nella società russa ce ne sono ma, per ora, niente crepe sulle mura del Cremlino. Tuttavia una dittatura è granitica fino a che all’improvviso scopriamo che non lo era.
Supponiamo – solo supponiamo – che fra tre giorni o un mese, sia questa la soluzione della guerra in Ucraina. Il conflitto continua senza una fine visibile, la resistenza degli ucraini si fa sempre più intensa. Intanto le forze armate russe si dissanguano. Il fronte interno è reso sempre più complicato e insostenibile dalle durissime sanzioni internazionali; la Cina offre a Putin una mediazione, non una sponda. Diventa sempre più evidente che per il presidente e l’intero paese non ci siano vie d’uscita vincenti ma lo spettro di un gigantesco massacro o di un altro Afghanistan, questa volta europeo.
Politici, ex commilitoni del Kgb, generali, oligarchi, direttori di giornali devono a Putin tutto il potere che hanno. Ma ora è a causa di Putin che possono perderlo. La fedeltà ha sempre dei limiti e anche chi la conserva per patriottismo deve riconoscere che oltre al loro potere è anche la Russia che sta affondando, circondata da un mondo ostile e, nel migliore dei casi, astenuto.
Questo è ovviamente un wishful thinking, un pio desiderio. Ma sembra impossibile che Putin possa vincere come aveva pianificato. Quindi andiamo avanti con l’immaginazione. Resa dei conti stalinista o una dacia dove passare i suoi giorni, Putin finalmente cade. Avremo un mondo migliore?
Forse si ma non così tanto. Mezzo millennio di autocrazia zarista, 70 anni di comunismo e 22 di Vladimir Putin – ininterrotti salvo la pausa della caotica e cleptocratica democrazia eltsiniana negli anni ’90 – non possono d’improvviso generare un Thomas Jefferson. Al potere ci saranno ancora gli ex capi del Kgb di Leningrado che avevano scalato il potere con Putin, gli oligarchi e i generali non compromessi dalla brutta figura in Ucraina. Non è esclusa la sopravvivenza del ministro degli Esteri Sergei Lavrov: “uno squalo vestito Armani”, lo aveva definito qualche anno fa una giornalista americana.
Chiunque governerà, sarà più cauto, userà l’arma della diplomazia, dovrà riconquistare un’Europa ostile e un’America convinta di aver vinto una partita fondamentale per la sua rielezione presidenziale. Ma saranno sempre nazionalisti permalosi, convinti chela Russia abbia di natura un ruolo da grande potenza. Paradossalmente europei e americani dovranno faticare e forse minacciare per convincere l’Ucraina a dare la Crimea per persa e concedere l’autonomia a Donbas e Lugansk. Un’Ucraina come la Finlandia, neutrale ma democratica, europea e fuori dalla sfera russa, sarà la soluzione migliore.
Così potrà iniziare la Seconda Guerra Fredda. Qualche giorno fa Martin Wolf sul Financial Times scriveva che siamo già “in un nuovo conflitto ideologico, non uno fra comunisti e capitalisti ma fra tirannie irredentiste e democrazie liberali. In molti sensi questo sarà più pericoloso della Guerra Fredda” originale.
Sarà più complicata della prima perché i protagonisti non saranno solo due, come nella prima. C’è evidentemente la Cina che col passare degli anni sarà sempre più ambiziosa della Russia e, rispetto a quest’ultima, lo sarà a ragion veduta. E come inaspettata eredità del conflitto ucraino, ci sarà un’Europa sempre più assertiva, ricca e armata. I litigi a Bruxelles riprenderanno ma la scoperta dei vantaggi offerti da un’Unione credibile e forte, dovrebbe contenerli in un accettabile confronto democratico.
A renderci più compatti in un mondo più competitivo, sarà la certezza di non poter dare per certa come un tempo una forte e affidabile presenza degli Stati Uniti. Se Donald Trump avesse vinto un secondo mandato presidenziale, il suo amico Putin avrebbe normalizzato l’Ucraina in una settimana. Ma se non l’ex presidente, un altro repubblicano trumpista, politicamente più abile e pericoloso dell’originale, potrebbe essere alla Casa Bianca nel 2024. Nella Seconda Guerra Fredda mantenere lo spirito di unità e collaborazione di queste settimane, per l’Europa non sarà una scelta ma una necessità.