Non c’è testata di qualità globale che non dedichi il dovuto spazio all’anniversario del 6 gennaio: quando una folla di facinorosi repubblicani prese d’assalto il Campidoglio di Washington per impedire l’elezione di Joe Biden; quando la democrazia americana visse il suo momento più drammatico dai tempi della Guerra Civile.
Dopo le incredibili immagini da Washington che d’improvviso si era trasformata nella capitale di un paese del Terzo Mondo alle prese con un golpe, era logico pensare che quella sarebbe stata la fine del trumpismo; che il bipolarismo americano avrebbe ripreso il suo corso naturale: il partito perdente ammette la sconfitta, cambia candidato e programma per cercare di vincere l’elezione successiva.
Invece in questi giorni non c’è testata – eccetto quelle sostenitrici di Donald Trump e dell’Internazionale Autocratica (ormai possiamo usare questa definizione) – che affronti la ricorrenza con inusuale preoccupazione. The Economist ha dedicato la copertina al pericolo sempre più evidente che il partito repubblicano si stia allontanando dal tempio della democrazia. Come anche il Washington Post, il NewYork Times ha scritto che “la Repubblica è di fronte a una minaccia esistenziale da un movimento che apertamente disprezza la democrazia ed ha dimostrato di essere disposto a far uso della violenza per raggiungere i suoi scopi”.
Quel movimento non sono le migliaia di esagitati del 6 di gennaio; non sono le milizie armate dell’ultra-destra nazionalista. E’ il Partito Repubblicano, l’altro pilastro fondamentale, insieme al Democratico, perché la democrazia americana funzioni.
Nei giorni successivi all’assalto al Campidoglio, rappresentanti e senatori repubblicani avevano preso le distanze da Trump, dai suoi comportamenti e dalle dichiarazioni che avevano contribuito a scatenare gli estremisti. Poi hanno scoperto che il 70% dell’elettorato repubblicano continuava a credere che le elezioni erano state truccate; che il partito e la sua cassa continuavano ad essere controllati da Trump; che in assenza di una forte revisione politica interna, demografia e censo avrebbero garantito per molti anni un Congresso e una presidenza democratiche.
Il New York Times ricorda che in questo ultimo anno “i legislatori repubblicani in 41 stati hanno cercato di far avanzare gli obiettivi dei rivoltosi del 6 gennaio”. Non violando le leggi come questi ultimi, ma facendone di nuove: limitando il diritto di accesso al voto, modificando i distretti elettorali, trasformando le commissioni che conteggiano le schede in affiliazioni repubblicane.
Un eroe delle elezioni dell’anno scorso era stato Brad Raffensberger, il segretario di Stato della Georgia: negli stati questa carica equivale a un ministro degli Interni a capo della commissione elettorale. Nonostante fosse repubblicano, Raffensberger si era rifiutato di inventare gli 11.780 voti che Trump pretendeva per superare Joe Biden in Georgia. Perché non accada più, l’assemblea legislativa a maggioranza repubblicana ha eliminato la carica di segretario di Stato. Cose simili stanno accadendo in Michigan, Nevada, Arizona.
Sia pure con mezzi apparentemente meno violenti, ormai ogni giorno è un altro 6 di gennaio, è la sintesi dell’editoriale del Times. La retorica dei leader lascia intendere che il Partito Repubblicano si veda “come il solo legittimo potere di governo e quindi veda la vittoria di chiunque altro come il risultato di una frode”.
Un anno dopo gli eventi, 725 aggressori sono stati arrestati o denunciati. Ma i giudici né la commissione parlamentare sono ancora arrivati ai mandanti. Se e quando Donald Trump sarà inquisito, entrerà in gioco la Corte Suprema della quale sei dei nove giudici sono di nomina repubblicana. Tre scelti da Trump.
Se la più importante democrazia, economia e potenza militare del mondo, diventa una super-Ungheria di Orban, cosa accadrà alle più fragili democrazie liberali di noialtri? Secondo Freedom House, per la prima volta dal 1974 i paesi che hanno abbandonato la democrazia sono stati più numerosi di quelli che l’hanno adottata: 12 a 7 nell’ultimo quinquennio. Polonia, India, Filippine, Turchia, Myanmar. All’inizio degli anni ’90, i paesi europei dell’Est liberato dal controllo sovietico, non erano diventati d’improvviso democratici ma, nel migliore dei casi, tenuamente democratici.
L’illusione ancora più grande fu che ovunque l’economia di mercato si fosse estesa, si sarebbe sviluppata una classe media che avrebbe poi rivendicato anche le libertà politiche. Non è andata così e la Cina è l’esempio più evidente.
Dopo aver già interagito varie volte con il partito Fidesz di Victòr Orban, il Conservative Political Action Forum, braccio armato dei repubblicani americani, quest’anno terrà la sua assemblea generale in Ungheria. Se dopo le elezioni di mid-term dell’anno prossimo e soprattutto le presidenziali del 2024 l’America diventasse una “democrazia illiberale”, delle nostre illusioni resterebbe molto poco.