Sotto il vulcano (israeliani e palestinesi)

coloni2“Cosa vogliamo fare a Gaza?”, si chiedeva il mese scorso Yair Lapid, il ministro degli Esteri, leader centrista e futuro premier fra un paio d’anni: se esisterà ancora lo strano governo di destra, centro-destra, centro, centro-sinistra e sinistra, palestinesi d’Israele compresi. Dovrebbe essere normale che un leader politico israeliano cerchi una soluzione a un problema così evidente come l’instabilità nella striscia. Normale anche che la questione si allarghi a tutti i palestinesi: a cosa fare anche dei territori occupati in Cisgiordania.

Invece no. La domanda che Lapid pone a Israele, ad Hamas che controlla la striscia e alla comunità internazionale, è invece straordinaria per un leader politico di questo paese. Che fare dei palestinesi, è una questione che gli israeliani non vogliono porsi: una solida maggioranza perché crede di avere ormai vinto il secolare confronto con il popolo avversario, una minoranza qualificata per pudore di fronte all’ingiustizia di un’occupazione senza equa soluzione.

“Non annetteremo territori e non creeremo uno stato palestinese”, è la sintesi di Naftali Bennett, attuale premier e, nella coalizione, leader dell’estrema destra (rispetto al nazionalismo ebraico e al confronto con i palestinesi). La ragione è perché questo governo così anomalo è nato per togliere politicamente di mezzo Bibi Netanyahu e approvare dopo tre anni un Bilancio senza il quale uno stato non funziona. Il resto è un’ipotesi.

Ma il né carne né pesce palestinese di Bennet è come nascondere il problema sotto il tappeto, mentre invece i due popoli sono sempre sotto il vulcano: in quella zona d’ombra che non scampa mai alle conseguenze, in caso di eruzione. Piccola o grande, fra un mese o un anno, prima o poi un’ennesima eruzione ci sarà.

La presa di posizione di Lapid ha del rivoluzionario di questi tempi: rete elettrica, gas e acqua riallacciati a Gaza; desalinizzazione, sanità, trasporti, porto, infrastrutture. “In cambio Hamas s’impegnerà a una quiete a lungo termine”. Lapid precisa che Israele non parla con il movimento islamico che controlla la striscia: sono terroristi. Ma un dialogo è implicito. Un politico più importante di Lapid e di Bennett sosteneva che è col nemico , chiunque egli sia, che si deve parlare per raggiungere una pace. Ezer Weizman ha guidato l’aviazione nella folgorante vittoria del 1967; fu ministro del Likud e sebbene fosse di destra dialogò con l’Olp quando farlo era vietato per legge. Infine è stato il settimo presidente d’Israele.

Chi, dovendo occuparsi di questa vicenda, facesse lo sforzo di leggere i lunghi e ridondanti documenti politici di Hamas, scoprirebbe che anche in questo movimento ancora permeato di estremismo è in corso una lenta ma evidente mutazione politica. Era già accaduto con l’Olp e Weizman lo aveva capito. “Nel nostro approccio con i palestinesi è tempo di abbandonare la mentalità del gioco a somma zero” (io vinco e tu perdi, n.d.r.), dice ancora giustamente Yair Lapid.

In attesa che Hamas batta un colpo, ai palestinesi di Gaza sono stati rilasciati 10mila nuovi permessi di lavoro in Israele: non erano così tanti dai tempi della seconda Intifada. Anche nella Cisgiordania dell’Autorità di Abu Mazen, Lapid propone di sostenere il dialogo con fatti concreti.

I territori occupati sono divisi in tre aree: A, B e C. L’ultima è la più grande ed è interamente controllata da Israele. Il 99% di quel territorio è escluso agli arabi. Ma in quell’1% il governo d’Israele ha finalmente concesso la costruzione di più di 1.300 nuove case palestinesi: non accadeva da più di un decennio. Un buon segno.

Contemporaneamente però, i coloni ebrei – gli occupanti – potranno costruirne 3.100. Qualche tempo fa la Banca Mondiale aveva calcolato che se l’Autorità palestinese controllasse l’area C, il suo deficit di bilancio sarebbe dimezzato e l’economia aumenterebbe di 1/3. Non averla è una perdita da 14 miliardi di dollari.

Perché questo è il problema. Nessuno oggi è interessato a quello che chiamavamo “Conflitto israelo-palestinese”: pago da bere a chi riesce a trovare su un giornale italiano (eccetto Il Manifesto) un articolo sul tema. La questione è antica, insolubile e dunque noiosa; non c’è un orizzonte diplomatico e se qualcuno cercasse di aprirlo, questo governo israeliano non riuscirebbe a realizzare il suo lodevole proposito di liberare Israele e la comunità internazionale della presenza di Bibi, un Donald Trump più abile e longevo. Una volta di più i palestinesi devono aspettare: è anche una conseguenza dei monumentali errori e delle opportunità perdute dei loro capi.

Ma sotto il vulcano le cose non si sono fermate nell’attesa di tempi migliori. Come sintetizzava qualche giorno fa un titolo del quotidiano Haaretz, “Forse la soluzione dei due stati è scivolata dall’agenda mondiale, ma l’occupazione no”. Quella non è stata congelata nell’attesa che una trattativa riprenda: continua, è sempre più brutale e oppressiva. Gli avamposti illegali che rubano altra terra palestinese e annunciano la nascita di altre colonie; le violenze dei coloni armati contro i civili arabi, i raid nei villaggi, sempre più tollerati dall’esercito. In 18 assalti contati dall’ufficio locale dell’Onu, in questa stagione di raccolto i coloni hanno vandalizzato 8mila ulivi dei contadini palestinesi. Quando non sono le persone ad essere uccise da soldati e polizia di frontiera sempre più aggressivi con i palestinesi che protestano.

Gerusalemme è una potenziale santabarbara ma è sotto l’occhio della comunità internazionale. L’umiliazione e il sopruso sono invece la quotidianità ignorata. I rapporti dell’Onu si moltiplicano, il dipartimento di Stato a Washington protesta per le nuove case, così la Ue. Inutili atti dovuti che Israele ignora: sa che non ci saranno conseguenze politiche, l’impunità è garantita. Lentamente, giorno dopo giorno, le regole sono sempre più ingiuste e parziali, l’occupazione si allarga fino ad essere annessione non dichiarata.

Ma il vulcano è attivo e lo sarà sempre. Morto un anno fa, l’israeliano Meron Benvenisti è stato soldato, kibbutznik, pacifista, scrittore, politico e uno dei primi sostenitori della soluzione bi-nazionale del conflitto: uno stato per due popoli opposto alla formula di Oslo dei due stati per i due popoli. Nelle sue poetiche memorie, “Son of Cypresses”, a proposito dei palestinesi aveva scritto che “gli israeliani camminano con loro, camminano con la loro ombra. Picchiano quell’ombra con un lungo bastone. Ma l’ombra non li lascia mai soli”.

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    Per il resto non sono in condizioni di aggiungere dell’altro, se non a livello di psicologia “spicciola”.. E cioè che la magnanimità è una virtù che può verificarsi a livello personale e anche manifestarsi in più persone contemporaneamente, ma che (per svariate ragioni) non suole divenire mai di massa e nemmeno pari a quella che in ambito nucleare è definita “critica”.. Ragion per cui i risultati dell’eventuale magnanimità e lungimiranza di pochi, (o pochi di più) che, per grande che sia, può essere di fatto e rapidamente neutralizzata ed azzerata dalla, o dalle azioni di pochi. Persone che di solito vedono soltanto o sopratutto il fatto di poter contare su protezioni e coperture di natura militare e geopolitica nonchè sul fatto di serrare strettamente il coltello per il manico. Sicchè si sentono più (e pure più uguali) degli altri, ed anche nella posizione di fare impunemente questo e quello… E cioè, prevaricazioni e maltrattamenti ingiusti, eccessivi e, magari, anche malevoli e gratuiti.. I quali tuttavia sogliono alimentare, ravvivare ed accrescere, anche oltremisura, dei personali sentimenti di odio che possono raggiungere livelli assai elevati (o comunque “critici”) e coagularsi in assai patogene minoranze attive la cui incidenza sul piano storico può comportare sorprendenti ed inattese conseguenze, nonostante le considerevoli contromisure in essere ovunque nel mondo.. Infine, il metaforico paragone del NeoStato ebraico con la Neapolis del Vesuvio e dei Campi Flegrei calza perfettamente.

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