Sulla Cina e la Guerra Fredda

biden-xiIl faccia a faccia virtuale fra Joe Biden e Xi Jinping è stato speculare a quello che il presidente americano aveva tenuto a giugno, a Ginevra, con Vladimir Putin. Il risultato è stato lo stesso: non è accaduto niente d’importante ma è stato importante che l’incontro ci sia stato. A voler essere ottimisti – con un certo sforzo, naturalmente – i due vertici potrebbero essere i primi cauti passi verso la creazione di un nuovo ordine internazionale: oggi diciamo globale.

Circa un paio di Slow News fa, avevamo parlato di quanto servirebbe un sistema di sicurezza collettiva per il caotico Medio Oriente, il primo produttore mondiale di petrolio, conflitti e profughi.

https://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/2021/10/23/helsinki-medio-oriente/ . Quello fra Stati Uniti, Cina e Russia è ancora più complicato perché se mai accadesse, se si realizzasse un concerto trilaterale delle superpotenze, anziché una nuova versione a tre della Guerra Fredda, sarebbe poi più facile costruire un sistema collettivo per la sicurezza del Medio Oriente e di molte altre regioni del mondo. Come il Congresso di Vienna del 1815 che equilibrò l’Europa, dopo il passaggio di Napoleone; o la Conferenza di Helsinki del 1975 che chiarì gli ambiti di collaborazione e di concorrenza fra Usa e Urss.

Ho parlato di questo – di Cina e Guerra Fredda – con un centinaio di studenti della Bocconi, in una delle mie quattro conversazioni settimanali sul mondo che ci circonda, organizzate dall’Università milanese e dall’Istituto di Studi di Politica Internazionale del quale sono senior advisor. Mi hanno colpito l’attenzione e le molte, articolate e spesso preoccupate domande che hanno posto.

Prima dell’incontro avevo dato da leggere agli studenti un articolo dell’ultimo numero di Foreign Affairs, “The Inevitable Rivalry”,

https://www.foreignaffairs.com/articles/china/2021-10-19/inevitable-rivalry-cold-war . L’autore, John Mearsheimer, un’autorità, sostiene che una nuova Guerra Fredda sia inevitabile. Dopo l’incontro di tre ore e mezzo fra Biden e Xi, io sono cautamente più ottimista. E’ vero che ci sono pericolosi punti di contatto che per volontà o semplice errore, potrebbero scatenare un conflitto armato. Taiwan, per esempio: di un’eventuale nuova Guerra Fredda è l’equivalente delle crisi dei missili di Cuba e di Berlino della vecchia.

E’ anche vero, come sostiene Mearsheimer, che la Cina tiene a Taiwan molto più di quanto l’Urss tenesse a Cuba e Berlino. Ma ci sono altri elementi che stridono con l’ipotesi della creazione di una cortina di bambù, simile a quella di ferro da Stettino a Trieste, che Churchill denunciò nel discorso di Fulton del 1946. Il più importante è l’economia. Nella vecchia Guerra Fredda era meno importante dello scontro ideologico, e contribuiva a dividere i fronti: capitalismo contro economia di comando. Oggi con la Cina, invece, l’economia è unificante: i modelli sono sostanzialmente gli stessi. Se crolla Wall Street, la Borsa di Pechino non ne è immune. Per parafrasare Humphrey Bogart, è l’economia di mercato, bellezza, non c’è niente che tu possa fare per fermarla.

Le spettacolari prestazioni economiche dell’ultimo quarantennio sono la forza della crescita cinese a grande potenza, ma anche il suo tallone d’Achille. La bolla provocata da Evergrande ha mostrato che il sistema immobiliare cinese sedeva su un debito da 2mila e 800 miliardi di dollari, come in qualsiasi avido e incauto paese capitalista. Ancora: a luglio il governo di Pechino aveva avviato un giro di vite contro le imprese tecnologiche, le più attrattive sia per gli investitori stranieri che per quelli cinesi. Uno degli slogan di Deng Xiaoping, era che con le sue riforme economiche strutturali “qualcuno potrebbe diventare ricco prima di altri”. E’ quello che è accaduto anche se forse Deng non pensava con queste proporzioni. Il settore tecnologico ha creato fortune inimmaginabili come in Occidente.

Alla fine, la Cina è a un bivio. Da un lato l’1% più ricco possiede il 30% della ricchezza delle famiglie cinesi; dall’altro cambiare le regole dell’Hi-Tech a beneficio dell’equità sociale, costa al paese fra 1.500 miliardi e 3mila miliardi di dollari.

Ecco un esempio di quanto sia difficile coniugare comunismo e capitalismo: l’ambizione di creare una società affluente e stabile in una realtà a libertà zero. O come ha detto meglio un esperto americano, “un’efficienza economica sostenibile e l’onnipotenza politica non vanno mano nella mano”. Un analista finanziario cinese non avviserà mai i suoi superiori di un disastro incombente né consiglierà le contromisure: offenderebbe i suoi capi, rischierebbe il posto se non anche la prigione.

Nessuno s’illude che la Cina diventi un giorno democratica. Ma il culto della personalità imposto da Xi Jinping (un quarto delle 531 pagine della nuova storia ufficiale del partito, è dedicato a lui) e la totale assenza di dibattito interno, non aiutano a realizzare le ambizioni economiche della Cina. Per dirla nella vecchia lingua del comunismo, è una contraddizione interna fra “nichilismo storico” (cioè la libertà di critica interna) e centralismo democratico.

Ha dunque tempo e forze la Cina per aprire una nuova Guerra Fredda gobale? E può farlo quando otto dei suoi primi dieci partner commerciali sono democrazie; e quando il 60% delle sue esportazioni va in America e nei paesi alleati degli Stati Uniti? Fino al 1986, prima dell’avvento di Mikhail Gorbaciov – e quando Usa e Urss insieme avevano 68mila testate nucleari – la potenza sovietica controllava un impero socialista, guidava il Patto di Varsavia e influenzava tutti i paesi africani che uscivano dalla dominazione coloniale europea, dall’Egitto all’Angola. La Cina di Xi è invece una superpotenza senza alleati.

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