I ladri del Libano

beirutI partiti e i banchieri hanno rubato i soldi dei libanesi. Hezbollah e i suoi alleati hanno invece rubato il Libano: ne sono diventati i padroni; pur occupando pochi posti nel potere formale, ne determinano il sistema giudiziario ed economico, quel poco di stato sociale, la difesa nazionale, le alleanze, gli equilibri settari.

Giovedì mattina abbiamo avuto solo l’ultima sanguinosa dimostrazione di questo potere. Due giorni prima Tarek Bitar, il giudice che sta guidando l’inchiesta sull’esplosione di un anno fa al porto di Beirut, aveva emesso un mandato di cattura contro un ex ministro: Ali Hassan Khali, alle Finanze al tempo dell’incidente, stretto alleato del movimento sciita fondamentalista Hezbollah.

Come era già accaduto col magistrato precedente -riuscendoci – Hezbollah e alleati avevano preteso anche le dimissioni di Bitar. Sayed Hassan Nasrallah, massima autorità religiosa e politica del movimento, aveva convocato una manifestazione, assieme ad Amal, l’altro partito sciita. Forse il più corrotto dei partiti libanesi, più che un alleato di Hezbollah, Amal ne è un vassallo.

Secondo la loro versione degli avvenimenti, la manifestazione pacifica in marcia verso il ministero della Giustizia, è finita in un’imboscata organizzata dai cecchini delle Forze Libanesi, il partito estremista cristiano maronita di Samir Geagea. Decine d’immagini fatte dai cellulari dei testimoni, dimostrano invece che i manifestanti erano entrati armati nel quartiere cristiano di Ein el-Rommaneh, cercando lo scontro con le Forze Libanesi. Con la dovuta cautela l’Armée ha in qualche modo confermato questa versione. L’Esercito è forse l’unica istituzione interconfessionale rimasta in Libano ma deve agire con attenzione: ufficiali e truppa vengono da ognuna delle 17 sette religiose del paese.

Nel 1975, quando scoppiò la guerra civile, le forze armate implosero contribuendo ad alimentare il conflitto. Fantasmi del passato che giovedì hanno ricominciato a prendere corpo. Nell’aprile del ’75 fu a Ein el-Romaneh, quartiere nel Sud-Est di Beirut che incominciò tutto: in una chiesa si celebrava un matrimonio cristiano, da lì passò un pullman carico di palestinesi che prese ad insultare i maroniti. Questi spararono e la guerra civile finì 15 anni più tardi con la partecipazione di molti altri protagonisti locali e internazionali. Per Ein el-Rommaneh passava la linea verde che divideva i contendenti: quella demarcazione oggi è attraversata dal traffico e dai pedoni ma esiste ancora nella mente dei libanesi.

L’ex ministro Khali è accusato dal giudice Bitar di essere al vertice di una catena di comando che avrebbe dovuto prendersi cura di un pericoloso carico da 2.750 tonnellate di nitrato d’ammonio. La negligenza al porto fu la causa dell’esplosione che uccise più di 200 persone. Ora Hezbollah vuole fermare il processo. Il suo messaggio di giovedì al Libano era e rimane: potete avere pace e ma non giustizia; o giustizia ma con il caos.

Diversamente dalla guerra del 1975, nessuna milizia settaria e nemmeno l’Armée possono confrontarsi con Hezbollah che in realtà è un esercito. Combatte con gli iraniani in Siria, accanto al regime di Bashar Assad; ha tenuto testa alle forze armate israeliane. Forse nessun paese arabo della regione ha un arsenale missilistico vasto e tecnologicamente avanzato quanto Hezbollah.

Il movimento sciita è saldamente uno stato nello stato. Prima che libanese, la sua agenda è regionale. Il Libano è semplicemente la struttura geografica dentro la quale Hezbollah opera. Secondo gli accordi di spartizione settaria, potrebbe rivendicare il presidente del Parlamento; in base alla sua forza reale (nel corso degli anni gli sciiti sono anche diventati maggioranza relativa) potrebbe pretendere ministeri fondamentali. Ma non ha bisogno di occupare cariche di un paese che già controlla senza assumersene la responsabilità.

Negli affari libanesi Hezbollah interviene solo quando lo ritiene necessario: come sempre, senza pagarne l’eventuale prezzo. Sono stati sicari e partner dei siriani nell’omicidio dell’ex premier sunnita Rafik Hariri. Hanno partecipato all’eliminazione di decine di giornalisti, intellettuali, sindacalisti e politici avversari. Quando si è tentato di smantellare il loro sistema illegale di telecomunicazioni, parallelo a quello dello stato, hanno attentato alla vita del competente ministro druso e minacciato di scatenare un conflitto. Un breve conflitto che invece hanno provocato prendendo possesso del centro di Beirut per sequestrare le armi delle milizie sunnite. Alle elezioni del 2005 l’alleanza attorno al partito sunnita di Sa’ad Hariri aveva conquistato la maggiora ed Hezbollah occupò per mesi il centro della città per impedire che nascesse un governo.

Tutti sanno che l’aeroporto, il porto e le frontiere con la Siria sono nelle mani di Hezbollah. A dispetto della presenza di un cospicuo contingente dell’Unifil (comandato dal generale Stefano Del Col), la milizia islamica ha il pieno controllo del Sud del paese, al confine con Israele. Ed è altamente probabile che il messaggio armato di giovedì abbia raggiunto i destinatari: che nell’inchiesta sull’esplosione al porto di dovrà cercare un nuovo giudice o un compromesso; che oltre 200 morti libanesi non avranno mai giustizia e i vivi nessuna riforma politica ed economica.

Nel 1983 Nuri, il mio vecchio autista di fiducia a Beirut, mai impaurito dalle cannonate perché era sordo, continuava a ripetermi: “Monsieur Abu Dawood (il mio nom de guerrequaggiù), le Liban est fini”. Ma nonostante Hezbollah, è ancora lì.

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