“Non cambierò i governi come era costretto a fare mio padre: serve stabilità”, aveva promesso Abdullah dopo aver giurato da re, all’inizio di febbraio del 1999. Nei suoi primi 22 anni di regno ne avrebbe cambiati 13: il premier ora in carica è il quattordicesimo. Il giovane Abdullah sapeva che non avrebbe mai potuto mantenere l’impegno perché stabilità in Giordania è una condizione complicata, spesso evanescente. In un certo senso anche quel continuo cambiare governi, cioè distribuire cariche, è una forma di stabilità.
Come era estremamente chiaro al vecchio Hussein, anche il successore Abdallah sa che suo fratello Hamzah, il ribelle, ha ragione: alla Giordania senza risorse ma con milioni di profughi fuggiti dai conflitti dei paesi alle sue frontiere, servono riforme; serve opporsi a corruttela e nepotismo per dare spazio ai giovani, frutto di una demografia cresciuta esponenzialmente in pochi anni.
Tuttavia è il sistema che regge la monarchia hashemita a impedire i cambiamenti. Più o meno come nel vicino Libano, precipitato nel disastro e incapace di riformarsi: il sistema di spartizione interconfessionale del potere che aveva impedito una nuova guerra civile libanese e anche una forma di democrazia, rara nella regione, è diventato una trappola.
In Giordania la trappola sono le 60 tribù beduine, il cui giuramento di fedeltà per la casa degli Hashem è incrollabile ma va costantemente alimentato. Molte di quelle grandi famiglie vivono nel deserto sotto la tenda solo per il week-end: il resto della settimana lo passano ad Amman o all’estero. Proprietari terrieri, allevatori, imprenditori, banchieri educati nelle migliori facoltà degli Stati Uniti con un passaggio all’American University di Beirut o del Cairo. Sono la classe dirigente alla quale il re garantisce lavoro, libertà d’affari, cariche amministrative e seggi parlamentari, in cambio della fedeltà.
Le riforme posso avvenire solo se sono anche nel loro interesse. Un equilibrio fra le due necessità sarebbe possibile in un paese che nel 2000 non arrivava a cinque milioni di abitanti. Ma la Giordania è senza risorse naturali, eccetto i fosfati, e vive dell’aiuto finanziario di Stati Uniti e paesi del Golfo; in un ventennio ha raddoppiato la popolazione; e delle cento guerre nei paesi vicini, quando non vi ha combattuto direttamente, la Giordania ha nobilmente aperto le porte alle vittime che causavano. Oggi nel paese vivono più di 600mila profughi siriani, 30mila iracheni, 4mila sudanesi; perfino circassi del Caucaso, fuggiti da guerre antiche, diventati la guardia reale della casa hashemita.
E naturalmente i palestinesi: i profughi del 1948, del 1967, quelli cacciati dal Kuwait nel 1990 e dall’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Contare solo i due milioni di profughi palestinesi registrati è un calcolo incompleto: oltre che politica, la questione è burocraticamente complessa. Circa il 70% della popolazione giordana è di origine palestinese, compresa la regina Rania. Anche i palestinesi di Gerusalemme Est o della Cisgiordania occupata dagli israeliani hanno diritto ad avere un passaporto giordano. Vi è solo scritto che il documento è “rilasciato in base all’articolo 3 della legge sulla cittadinanza” che indica i “naturalizzati”, cioè i palestinesi salvo rare eccezioni.
Molti anni fa un’amica dirigente dell’Olp ad Amman, fuggita da bambina da Gerusalemme, cercò di spiegarmi il problema: “c’è chi si sente giordano-palestinese e chi palestinese-palestinese”. Il famoso Settembre Nero del 1970 non fu solo un conflitto tra re Hussein col suo esercito e Yasser Arafat con i suoi fedayyin. Fu anche una guerra civile fra palestinesi, molti dei quali scelsero di combattere da giordani con i giordani.
Ma è questo che preoccupa le grandi famiglie beduine: la paura di diventare minoranza a casa loro anche nei diritti di cui godono. Il loro non è tanto un attaccamento al più giovane Hamzah, prediletto da Hussein al quale assomiglia nei tratti, quanto una preoccupazione verso Abdullah che ha sposato Rania, una palestinese. Quando salirà al trono, il loro primogenito Hussein sarà il primo re giordano-palestinese della stirpe hashemita.
Il 21% dei palestinesi d’Israele ha più deputati alla Knesset di quanti non ne abbia il 70% giordano nel parlamento di Amman. Riformare la Giordania significa cambiare anche questo. Era chiaro e complicato per Hussein, lo è per Abdullah, 59 anni, e lo sarebbe anche per suo fratello Hamzah, 41, se fosse re.
Come il casato dei Windsor, anche l’hashemita è una monarchia costituzionale ma dalle caratteristiche arabe. E’ il massimo di liberalismo che che re, emiri e rais vicini possano sopportare. O come ha scritto qualche tempo fa The Economist, “è il più democratico dei regimi autoritari del Medio Oriente”.
A distanza di diversi giorni dall’inizio del caso, è ancora difficile capire quali fossero le intenzioni di Hamzah e della ventina di personalità giordane arrestate. Secondo Oded Eran, ex ambasciatore d’Israele ad Amman e vecchio amico di re Hussein, è stato molto meno di un tentativo di colpo di stato e molto più di una disputa familiare. Facendo leva sulla crisi economica aggravata dalla pandemia, Hamza in cerca di alleati aveva inusualmente visitato i capi delle tribù. Ma anche questi ultimi sanno che il giovane non potrebbe fare meglio di Hussein, se non a scapito dei loro interessi. E sanno che il fratello maggiore Abdullah ha il sostegno delle forze armate e del Mukhabarat, l’intelligence militare: i cui alti ufficiali vengono in gran parte da quelle stesse famiglie che Hamzah avrebbe voluto mobilitare per prendere la corona che il padre Hussein avrebbe voluto affidargli 22 anni fa.
La presenza fra gli arrestati di Bassen Awadallah, economista, già stretto consigliere di Abdallah ma dalla doppia cittadinanza giordano-saudita, potrebbe far pensare che Riyad avesse qualche interesse nel cambiamento di re. Nel 1925 gli al Saud spodestarono gli Hashem dalla Mecca e ora vorrebbero prendere il controllo della moschea di al Aqsa, sulla Spianata del Tempio di Gerusalemme: terzo luogo santo dell’Islam e sotto il patronato giordano.
E’ improbabile, sebbene il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, abbia già mostrato pericolose ambizioni. Ma forse non anche questa: cambiare la monarchia in Giordania, pilastro di stabilità nella regione più instabile del mondo, significa fare i conti con Stati Uniti e Israele, i principali garanti di quella stabilità. In tutta la regione, stato ebraico compreso, per Washington è difficile trovare un alleato più affidabile di Abdullah.
A Gerusalemme, tutte le volte che Bibi Netanyahu tenta di sottovalutare e umiliare la vicina Giordania (annunciando l’annessione della valle del Giordano, per esempio), sono i suoi generali e i capi dei servizi a ricordargli quanto strategico sia quel paese. Abdullah ha un valore aggiunto: dai tempi di Ben Gurion gli israeliani pensano – spesso ad alta voce – che prima o poi debba essere la Giordania lo stato palestinese che manca sulla carta geografica. Un re giordano-palestinese, cioè il figlio di Abdallah e Rania, sarebbe un’utile premessa.
E’ dunque stato un tentativo maldestro di golpe, quello di Hamzah? La risposta l’ha data suo fratello, il re: “La sfida di qualche giorno fa non è stata la più dura né la più pericolosa per la stabilità della nostra nazione. Ma è stata la più dolorosa, perché coloro che hanno preso parte alla sedizione venivano dalla nostra stessa casa”.
(Fine)
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