Riguardo al Sudafrica, tuttavia, c’è una ragione per me più importante della vocazione ruminante di Slow News. Chiunque abbia avuto la fortuna d’innamorarsi del proprio mestiere – io l’ho avuta eccome – viene plasmato dalle persone, i luoghi, gli avvenimenti che quel mestiere permette di conoscere. Fra guerre, invasioni, pestilenze, attentati e crisi finanziarie, ho potuto seguire anche tre vicende cariche di speranza per il mio tempo: la Perestroika di Gorbaciov, il processo di pace israelo-palestinese, la fine dell’apartheid in Sudafrica.
La Russia di Putin non è esattamente quella cui Gorby né Yeltsin pensavano. Della pace fra israeliani e palestinesi è quasi superfluo parlare: il suo fallimento sembra non interessare più nessuno. Della mia giovinezza professionale resta una sola storia di successo: il Sudafrica. Ma anche questa speranza è a serio rischio di fallimento, per quanto non immediato.
Nel 1994, alle prime elezioni multirazziali che seguii con emozione, andò a votare l’86% dei sudafricani; due settimane fa alle urne si è presentato il 46. Per la prima volta l’Anc, l’African National Congress, il partito della lotta e della liberazione dalla segregazione e di tre Nobel per la pace, è sceso sotto la soglia del 60% (il 57,5%). Nel ‘94 c’era Nelson Mandela, adesso Cyril Ramaphosa. Ma se ci fosse stato un altro a rappresentare l’Anc, molta meno gente sarebbe andata a votare e molti di meno avrebbero votato per quel partito.
Attivista della lotta all’apartheid, creatore e guida del Num, il sindacato nazionale dei minatori e poi del Cosatu, la grande confederazione dei lavoratori, paziente e determinato negoziatore della transizione verso la democrazia, nessuno quanto Ramaphosa riscuoteva la fiducia di Mandela. Nel 1999, quando Madiba decise di ritirarsi “perché a 80 anni un politico deve pensare a fare il nonno”, Ramaphosa doveva essere il successore. Ci fu uno scontro interno all’Anc, Mandela lo perse e presidente divenne Thabo Mbeki. A Ramaphosa fu affidato un altro compito: entrare nel business e aprire la strada ai neri nell’economia sudafricana interamente bianca. Personalmente ebbe un grande successo: oggi la ricchezza di Ramaphosa è valutata attorno ai 550 milioni di dollari. Ma non andò così per il resto della maggioranza nera, l’80% del paese.
E’ questo il problema principale che minaccia il miracoloso successo sudafricano: nel 1994, ancora pochi giorni prima del voto, noi giornalisti a Johannesburg eravamo convinti di dover raccontare una guerra civile, non un’elezione riuscita. Thabo Mbeki e il suo giovane ministro delle Finanze Trevor Manuel governarono bene l’economia. Si sarebbe dovuto investire di più nel sociale e soprattutto nell’educazione. Ma non c’erano molti soldi e soprattutto l’obiettivo di Mandela – far crescere progressivamente il potere economico della maggioranza nera al livello della minoranza bianca, senza l’ennesima rivoluzione fallimentare africana – richiedeva un altro miracolo o molto più tempo.
La devastazione dell’esperimento sudafricano fu provocata dal terzo presidente che ha governato per quasi due mandati, Jacob Zuma. “Il decennio perduto”, lo chiamano i sudafricani. Zuma ha confermato tutti i peggiori stereotipi del leader africano. “Il sistema clientelare e di corruzione rappresentato da Zuma è profondamente radicato nel governo e nell’Anc”, ha spiegato un ex ministro.
Richiamato in politica dalla parte ancora sana del partito, Ramaphosa era stato imposto alla vicepresidenza. Travolto dagli scandali e dalle denunce, 15 mesi fa Zuma aveva ceduto il potere al suo vice. Le ultime elezioni hanno dato a Ramaphosa la legittimità elettorale e costituzionale per governare. Ma secondo i sondaggi già godeva di un consenso superiore a quello dell’Anc.
Non so se cinque anni basteranno a Ramaphosa per salvare il partito di Mandela e soprattutto il Sudafrica. Nei suoi primi 15 mesi di potere non ha migliorato l’economia ma si è impegnato a combattere la corruzione dilagante. Ha le qualità per farcela. Penso però che al Sudafrica farebbe bene se l’Anc perdesse prima o poi un’elezione: sarebbe una grande prova di maturità nazionale. In un contesto democratico simile, gli indiani impiegarono un trentennio per negare il potere al Congress, il partito dell’indipendenza di Nehru e sua figlia Indira Gandhi.
Insieme all’economia, il problema del Sudafrica 25 anni dopo la fine dell’apartheid è che i partiti restano profondamente razziali. Pur perdendo consensi, l’Anc è la forza politica della maggioranza nera; i giovani arrabbiati dell’Economic Freedom Fighters sono ai limiti del suprematismo nero; i vecchi estremisti del Freedom Front, nostalgici di quello bianco. La Democratic Alliance, l’unica credibile opposizione, è percepita dagli elettori come il partito delle minoranze bianca, indiana e colorata, anche se il suo leader è un nero.
In quei giorni fantastici di fine aprile 1994 i sudafricani celebravano la nuova bandiera e cantavano il nuovo inno: Nkosi sikelel i’Afrika, Dio benedica l’Africa. Come prescriveva la transizione costituzionale negoziata da Cyril Ramaphosa e da un giovane come lui ma bianco, Roelf Meyer, Mandela e il vescovo Desmond Tutu imponevano alla loro gente appena liberata di cantare anche il vecchio inno dei boeri, Die Stem.
Erano i colori e le colonne musicali della Rainbow Nation che esiste ma non è ancora solida e sicura. Renderla tale è un compito delle donne e degli uomini di questo paese. Ma se Dio c’è, una benedizione divina potrebbe servire alla causa. Nkosi sikelel i’South Afrika.
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