E’ stato un fine settimana pieno di sorprese, l’ultimo passato a Riyad. Le molte cose accadute nella una volta sonnolenta città, vanno divise in due categorie: la vicenda interna saudita e il Medio Oriente che l’Arabia Saudita vuole disegnare. Nell’uno e nell’altro caso troneggia la figura non ancora interamente svelata del principe ereditario Mohammed bin Salman, 32 anni, meglio noto come MBS.
La parte che riguarda la prima categoria – la questione interna – è in fondo di relativa importanza fuori dal paese. La priorità per la regione e per il mondo (pensando al petrolio) non è la democrazia ma la stabilità dell’Arabia Saudita: che sia garantita dall’inamovibilità di un tempo o da una purga di principi e miliardari sospettati d’opposizione, conta poco.
Sabato scorso il giovane MBS ha fatto arrestare una ventina di cugini – principi come lui -, ministri, uomini d’affari. Tra loro Miteb bin Abdullah, il comandante della Guardia nazionale, reparto d’élite, l’unico che Mohammed non controllava da ministro della Difesa; e Alwaleed bin Talal, fondatore e proprietario della conglomerata Kingdom Holding, con interessi in Citigroup, Twitter, EuroDisney, Twenty Century Fox e molto altro. Gli arrestati sono rinchiusi nelle suites del Ritz-Carlton che probabilmente hanno poche somiglianze con i gulag stalinisti. Almeno per ora.
Per gli arrestati l’accusa è corruzione ma in Arabia Saudita è piuttosto difficile definirne il significato: non c’è una costituzione scritta, non esiste parlamento né un sistema giuridico indipendente. Ed è ancora più difficile separare le risorse dello stato da quelle dei principi, Mohammed compreso. Non c’è business a Riyadh che nonpreveda la partecipazione di un principe di casa reale.
La ragione delle purghe è politica. Quando re Salman morirà, per la prima volta nella storia dell’Arabia Saudita il successore non sarà il più anziano ancora in vita dei figli di re Abd al-Aziz, fondatore del regno, marito di 22 mogli e padre di una cinquantina di figli maschi. Togliendo di mezzo fratelli e nipoti dalla successione, Salman aveva designato Mohammed, il figlio prediletto. Non c’è monarchia al mondo che modificando un sistema di successione in vigore da 64 anni, quando morì il fondatore, non debba temere qualche forma d’instabilità. Garantito dalla legittimazione del re suo padre Salman, ancora in vita, Mohammed si è liberato in anticipo di concorrenti e oppositori.
I parenti che ha fatto arrestare non erano sostenitori di un’Arabia Saudita più aperta. Forse il vero riformatore è Mohammed. E’ lui che sta trasformando l’economia, aprendola agli investimenti internazionali; lui è impegnato nell’impresa impossibile di togliere ai sauditi sussidi da nababbi e costringerli a lavorare; lui ha sciolto la polizia religiosa e sta togliendo il potere al clero dopo avergli ordinato di smettere di demonizzare le altre fedi.
Il mantra è stabilità. Ma è pensando a questo che l’altra categoria di eventi accaduti a Riyadh è davvero preoccupante. Nel sabato delle purghe, dalla capitale saudita Sa’ad Hariri ha annunciato le sue dimissioni da primo ministro libanese. Mohammed, che gli ha ordinato di farlo, non ha cercato di salvare la forma: Hariri poteva farlo durante una visita ufficiale a Parigi, se non proprio dal suo ufficio nel magnifico Caravanserraglio di Beirut.
Il giovane Hariri – politicamente non vale il padre Rafik, probabilmente assassinato da Hezbollah e siriani – era premier perché nel manuale Cencelli settario del Libano, quel posto spetta a un sunnita. Nel governo e nel paese controllati da Hezbollah per conto dell’Iran, Hariri aveva un’autonomia pari allo zero. Ma in mancanza di alternative, teneva in piedi il governo di unità nazionale del quale il Libano e le sue 17 sette religiose hanno ancora bisogno per restare fuori dal caos e dalle minacce alle frontiere.
Ora Mohammed è convinto di avere l’alternativa. I sauditi avevano fatto un passo indietro dal Libano, causa sconfitte in Siria e crollo petrolifero, ora tornano con intenti bellicosi. L’altro giorno il quotidiano Ha’aretz si chiedeva se facendo dimettere Hariri, Mohammed non stesse spingendo Israele verso una guerra con Hezbollah e l’Iran. Il prezzo non è tanto Beirut quanto Teheran: è quello il confronto che ormai ha deciso di affrontare a viso aperto il giovane principe ereditario, di fatto già re dei sauditi: è primo-vice premier, ministro della Difesa responsabile di tutti i conflitti ai quali il paese partecipa, presidente del Comitato anti-corruzione e del Consiglio per l’economia che sta guidando la trasformazione post-petrolifera.
Non si può dire che sul piano regionale Mohammed possa reclamare uguale controllo della situazione: dopo 10mila civili morti, lo Yemen è una ferita aperta; nella liberazione dall’Isis e nella guerra civile in Siria, i sauditi sono controfigure; le sanzioni al Qatar vengono ignorate dal mondo intero: dopo il Libano, il Qatar potrebbe diventare l’obiettivo del prossimo azzardo di MBS.
La vicenda del “missile balistico” che gli Houthi avrebbero lanciato dallo Yemen e i sauditi intercettato a Nord Est di Riyadh, è preoccupante: che sia accaduto o sia inventato. Nel primo caso significherebbe che l’Iran vuole contenere il nuovo espansionismo saudita; nel secondo Mohammed cerca un casus belli. Nell’una o nell’altra eventualità, il Medio Oriente corre verso un confronto che trasformerà l’Isis e le guerre civili in episodi marginali.