Nel suo duro commento di martedì, nel quale il presidente degli Stati Uniti è definito “più gangster che imprenditore”, Michelle Goldberg del New York Times sintetizza così l’affare russo riesploso in città: la “cospirazione di Trump contro la nostra democrazia”. “The Plot Against America”, era il titolo dell’articolo.
E’ interessante notare, qui a Washington D.C., che nessuno mette Putin sul banco degli accusati: nonostante l’evidenza delle interferenze russa nelle elezioni presidenziali dell’anno scorso. In un certo senso gli si riconosce il diritto di agire come superpotenza rivale, approfittando delle debolezze dell’avversario americano.
A tempo debito gliela faranno pagare con un uguale attacco telematico, usando la Cia o estendendo le sanzioni economiche. Ora però la priorità sono le tracce di tradimento che l’inchiesta di Bob Mueller, gli arresti di questi giorni e le ammissioni di George Papadopoulos stanno circostanziando sempre di più: il possibile ruolo del presidente nell’accettare l’aiuto di un avversario dell’America per manipolare il rito che, con alcune modifiche, definisce la democrazia americana dal 1789 e da 45 presidenti.
Eppure, mentre Donald Trump incomincia a preoccuparsi seriamente, la vicenda non riguarda solo la debolezza del sistema americano. Da tempo è in corso un attacco premeditato e concentrico di russi e cinesi contro la democrazia occidentale. Anche in Italia ci sono molti estimatori di Vladimir Putin, alcuni siti lo santificano. Ed è indubbio che non solo in Medio Oriente, il presidente russo abbia dimostrato grandi capacità strategiche e a volte perfino equilibrio. Sulla scena internazionale Putin è un interlocutore pericoloso ma credibile, il presidente degli Stati Uniti è solo un soggetto pericoloso.
Ma alla fine, l’obiettivo di Putin è minare e possibilmente sovvertire il sistema democratico occidentale che se fosse applicato in Russia non gli permetterebbe di dominare da 17 anni e chissà per quanto tempo ancora. Tecnicamente possiamo ammirare le sue qualità di leadership e comprendere il quadro storico dal quale proviene. Ma è il nostro avversario. E’ un confronto tra le nostre libertà e il suo autoritarismo. Sul piatto della bilancia è giusto caricare tutti i limiti e gli errori del nostro sistema. Ma per quanto numerosi, il loro peso non ci farà mai invidiare i russi, a parte la loro letteratura.
Aiutando un personaggio come Donald Trump a diventare presidente degli Stati Uniti, Putin ha vinto la sua battaglia. La sua “Troll Army” che durante la campagna elettorale è stata capace di raggiungere 126 milioni di users americani su Facebook, Twitter e Google, non è costata quanto uno dei carri armati di una divisione corazzata che non gli avrebbe garantito gli stessi risultati.
Le qualità di leader di Xi Jinping non sono inferiori. Ma nonostante sa un vantaggio per tutti fare affari con la Cina, nella lunga distanza e nei valori fondamentali Xi è un avversario anche più pericoloso di Putin: ha realizzato risultati ammirevoli, la Cina possiede la ricchezza e la massa critica per essere una vera superpotenza in pochi decenni. Ma nel suo sconfinato discorso alla chiusura del 19° congresso del partito, il presidente è stato chiaro: il modello democratico occidentale è in competizione con quello autoritario cinese.
Per rafforzare il loro sistema e minare il nostro, entrambi – Xi e Putin – usano armi create in Occidente originariamente per ampliare un valore fondamentale come la conoscenza, per dare all’agorà una dimensione globale. Da anni Russia e Cina stanno sviluppando sul web sistemi per bloccare la libertà di critica, per manipolare e falsificare l’informazione. La Cina è maestra nell’uso della “censura inversa”: essendo la censura un affare difficile nell’era dello cheap speach, a un post critico si risponde con un’alluvione di notizie false: così tante da diventare alla fine vere.
Quello che è triste, non solo per l’America ma anche per noi europei, è constatare che oggi il loro principale alleato è il presidente degli Stati Uniti. Che ne sia incosciente o anche lui coltivi una predilezione per l’autoritarismo, al momento è irrilevante. Contano i risultati devastanti.
Mentre lunedì Bob Mueller riaccendeva la luce sul caso russo, l’alba di martedì apriva qualche speranza per gli occidentali di buona volontà. Alle 6.30 c’erano otto gradi ma correre lungo il Mall di Washington era corroborante per il fisico e l’animo. Nell’alba limpida, la luce del sole saliva alle spalle del Jefferson Memorial, sottolineando i profili dell’obelisco e della più lontana cupola del Campidoglio. Calpestavo correndo i luoghi dove il reverendo King aveva raccontato il suo sogno di convivenza razziale e dove i giovani manifestavano contro la guerra del Vietnam, esaltando il Primo Emendamento. Forse siamo alla fine dei valori d’Occidente, forse è solo una sconfitta passeggera. Winston Churchill, un grande occidentale, sosteneva che successo è passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo.