“La mia migliore operazione d’intelligence”, deve essersi detto il vecchio agente del Kgb Vladimir Putin, guardando Donald Trump al vertice Apec di Da Nang. Non è molto facile capire se il lungo viaggio asiatico del presidente americano sia stato un successo o un fallimento: probabilmente né l’uno né l’altro. La stampa Usa e in generale quella internazionale hanno dato molto più spazio al quotidiano intrigante divenire del “Russiangate”.
La questione non è più se ci siano state pesanti interferenze nelle elezioni presidenziali dell’anno scorso: il fatto è accertato. Il problema ora è capire se Donald Trump ne fosse al corrente o addirittura il promotore. In ogni caso l’operazione russa e l’offensiva del suo “troll army” ha avuto un clamoroso successo: anche se arriverà in fondo al mandato, la presidenza americana è azzoppata e la credibilità della prima superpotenza compromessa in ogni angolo del mondo.
Tuttavia, stando un paio di settimane a Washington, diventa chiaro che nonostante Putin sia riuscito a fare eleggere il suo candidato alla Casa Bianca, il vero protagonista della scena internazionale è la Cina. Non solo riguardo al futuro ma già oggi. Riusciranno gli Stati Uniti e l’Europa a governare pacificamente una crescita cinese graduale ma risoluta o si andrà verso un confronto? Più di uno studioso ricorda che nella storia l’incrociarsi di una potenza emergente con una declinante, ha sempre causato una guerra.
Il dialogo o il confronto con la Russia – pur con le sue pericolosità – non è che un’estensione del XX secolo; quello con la Cina è la vera sfida del XXI. Più della visita di Trump a Pechino, dei salamelecchi che Xi ha saputo concedere al lusingato presidente americano, niente più del 19° congresso del partito ha svelato le ambizioni di una nuova Cina.
Pur avendo un regime autoritario e spesso brutale, la Cina aveva due grandi qualità: da Deng Xiaoping in poi, ogni dieci anni cambiava la sua leadership in un sano rimescolamento generazionale. La seconda qualità è che quando visitavo il paese negli anni successivi a Tienanmen, e ai miei interlocutori contestavo l’autoritarismo del regime, non mi veniva risposto come in altre parti del mondo che no, il paese era democratico: “democrazia bolivarista” nel Venezuela di Chavez, “democrazia popolare” all’Havana, “democrazia islamica a Teheran” e del Libro Verde a Tripoli. A Pechino invece ammettevano che la democrazia non c’era e che sarebbero occorsi almeno 25/30 anni per raggiungerla. Ma, dicevano, la strada era quella.
La settimana scorsa a un dibattito a Washington, il responsabile degli studi cinesi di Csis, Christopher Johnson, confrontava le prime pagine del Quotidiano del Popolo alla fine di ogni congresso. Nell’ultima, la foto di Xi Jinping occupava gran parte della pagina: gli altri membri del politburo quasi non si distinguevano. Bisogna risalire ai congressi di Mao per trovare un’impaginazione simile.
La grafica indicava il ritorno della Cina al solo uomo al comando e la fine della leadership collettiva: molto probabilmente anche la continuazione di Xi ben oltre la prevista scadenza, fra cinque anni. Ad libitum. Quanto alla democrazia, nel suo fluviale discorso conclusivo il nuovo Grande Timoniere è stato chiaro: il modello cinese è un altro, alternativo al sistema democratico occidentale.
In quel discorso Xi non ha parlato di Stati Uniti né di politica estera. In realtà lo ha fatto, descrivendo la Cina come “Paese forte”, parlando di forze armate capaci di combattere conflitti e vincerli, di “periodo di opportunità strategiche” per fare avanzare il ruolo della Cina fuori dai suoi confini. Difficile non legare questa ultima considerazione alla profonda crisi di credibilità degli Stati Uniti di Trump. Come l’enfasi sulla volontà cinese di investire all’estero, senza mai citare il contrario: cioè riforme che finalmente facilitino anche l’investimento degli altri in Cina.
Che Xi faccia paura o sia destinato a essere un uomo di pace perché la crescita cinese ha bisogno di questo, una cosa è piuttosto evidente. E’ la voragine che divide il leader cinese con le sue visioni, dal carattere e dal limitato spessore del pensiero di Donald Trump, in questa strategica epoca di passaggio.
http://www.ispionline.it/it/slownews-ispi/
Allego l’articolo su Washington un anno dopo l’elezione di Trump, pubblicato dal Sole 24 Ore l’8/11
https://www.facebook.com/ugo.tramballi.1/posts/1281909501913103