Nello Studio Ovale forse illuminato da una candela, sperando che l’estate indiana della East Coast permetta di risparmiare in riscaldamento, Barack Obama starà soppesando le ultime dichiarazioni dell’ayatollah Khamenei. Non tanto le aperture: “Appoggiamo l’iniziativa diplomatica” di Rohani “e diamo importanza alle sue attività” nel suo viaggio a New York. Quanto le chiusure: “Siamo pessimisti verso gli americani, non abbiamo alcuna fiducia in loro”.
La guida spirituale e politica dell’Iran – si sarà chiesto Obama – non si fida di noi perché per lui siamo il solito grande satana; o per via dello shutdown? Perché la potenza americana nel Golfo è sempre grande e temibile o perché una nazione paralizzata dal suo stesso Congresso, non può essere un interlocutore affidabile?
Sul giornale Ha’aretz c’è un bell’articolo del rabbino Eric Yoffie, personalità influente fra gli ebrei americani e in Israele. Dopo il discorso militarista di Bibi Netayahu all’Onu, contro il disgelo fra Obama e Rohani, Yoffie sostiene che Israele “sta perdendo il dibattito sull’Iran” in corso negli Stati Uniti: “Non lo dico con soddisfazione ma con allarme. Ho speso la mia vita a contemplare l’orrore dell’Olocausto, dicendomi “mai più”. Ma mi rifiuto di non vedere cosa sta accadendo davanti ai miei occhi”. Il coraggioso rabbino si riferiva all’ottusità di Netanyahu che non capisce le nuove opportunità di pace offerte dal disgelo? O pensava a un’altra ottusità del premier israeliano: il non capire che l’America non ha più voglia di combattere in Medio Oriente per nessuno, nemmeno Israele; e che il rischio oggi è un nuovo isolazionismo? Di fronte a questa nuova crociata ultra-conservatrice e cristiana, più presto che tardi anche la lobby ebraica si troverà in difficoltà.
Perché la brutalità del Tea party e la soggezione all’ala estremista conservatrice del resto del tradizionale Partito repubblicano storicamente internazionalista, è questo che sottintende. A loro interessa spegnere la luce in America per fermare la riforma sanitaria democratica: una questione ideologica interna. Il fatto che automaticamente sia anche l’internazionalismo con i sui costi ad essere spento, a loro non interessa affatto. E se capita loro di pensarci, eventualmente la trovano una conseguenza positiva. Sono come Charles Lindbergh e Joseph Kennedy (il padre di John e Bobby), gli isolazionisti, piuttosto fascisti, che non volevano l’entrata in guerra contro la Germania nazista.
Molti esperti sommano lo shutdown al mancato
bombardamento della Siria, al riaffermarsi della Russia più sugli errori
americani che sulle qualità diplomatiche di Putin, all’incrinarsi dei rapporti
con vecchi amici e al deterioramento di quelli con i nemici conosciuti. Il
collegamento è solo temporale: anche per un presidente quando gira male non c’è
nulla che vada per il verso giusto. Shutdown e declino internazionale
dell’America sono due storie diverse ma fatalmente il primo accentua il
secondo. L’ennesimo viaggio rimandato in Estremo Oriente, il congelamento di
una trattativa così importante come quella sugli scambi commerciali con
l’Europa. Cosa dice il presidente degli Stati Uniti ai suoi interlocutori:
scusate, l’Air Force One non ha carburante…e nemmeno stewards. Ah già, neanche
il pilota?
Le mancate vittorie in Afghanistan e Iraq, le
Primavere arabe sfuggite di mano, le fughe di segreti, le microspie nelle case
dei migliori alleati, hanno incrinato la credibilità americana. Ma niente di
tutto questo è stato o è potenzialmente così devastante come lo shutdown:
un’America ostinatamente intenzionata a trasformarsi in repubblica di banana di
se stessa. In diretta, davanti agli occhi sbigottiti del mondo intero.