Forse insoddisfatti della loro vittoria, i giovani Tamarrud, i ribelli, hanno annunciato che non lasceranno piazza Tahrir: la presidieranno “in difesa delle forze armate” fino a quando la loro rivoluzione non avrà messo radici. Ricordano molto i giovani bloggers che avevano iniziato tutto due anni e mezzo fa. Anche loro si erano attaccati al totem-piazza oltre il dovuto, fino ad esserne annichiliti.
I Tamarrud soffrono della stessa malattia: non sono insoddisfatti ma inebriati del loro successo. E forse la storia si ripeterà: le forze armate che anche questi giovani avevano salutato come liberatori, li cacceranno a manganellate dalla piazza per ripristinare quell’ordine pubblico che i cairoti rivendicano fra una mobilitazione e l’altra.
E’ una vera svolta quella in corso? O è solo l’ennesimo sussulto di una rivoluzione – o Primavera – che si dipanerà per molto tempo ancora, prima di assestarsi nel suo alveo? Non sono un purista della democrazia. Riconosco che in un Paese complesso come l’Egitto forse la tutela militare è l’unico modo per stabilizzare il processo democratico, il quale non può che essere lento: solo i neocon americani pretendevano di esportare la democrazia come fosse un container pieni di jeans, per di più facendolo con i paracadutisti.
E come laico fino al midollo, provo un
istintivo distacco verso chi confonde volutamente Dio e Stato. Cacciando
l’ambasciatore di Damasco, qualche settimana fa Mohamed Morsi aveva annunciato
che per l’Egitto quella contro il regime di Bashar Assad era una jihad. Parole
giustamente insopportabili per una forza armata profondamente laica come quella
egiziana.
Però dobbiamo essere onesti. Quello al quale
abbiamo assistito è stato un colpo di stato: giornali e televisioni della
fratellanza sono stati chiusi; i dirigenti arrestati e ancora i militari stanno
cercando di inventarsi le accuse che giustifichino questa brutalità golpista. Alla faccia delle libertà di stampa, di
diritto e di democrazia che rivendicano per loro con una certa scompostezza, per
gli altri i giovani ribelli inneggiano alla repressione militare di stile
nasseriano.
Perché loro rivendicano di essere nasseriani.
Quando ho chiesto loro se fosse giusto negare la vittoria elettorale dei
Fratelli musulmani, mi hanno risposto che quelle non erano state elezioni
legali. Le uniche mai fatte in Egitto, dicevano, sono quelle dei tempi di
Nasser: giuste, trasparenti, popolari. Il problema di quei tempi non era la
trasparenza del voto: era che proprio non si votava. Ma i giovani parlavano
dell’epoca dorata di Nasser, “quando l’Egitto era un grande Paese”.
Provate a scendere in piazza Tahrir a
chiedere se in fondo quello dei militari non sia stato un golpe. La reazione è
questa: nel migliore dei casi ti accusano di essere vittima della propaganda
americana e israeliana che vuole screditare il Grande Paese e la sua Grande
Rivoluzione; nel peggiore sei direttamente un sionista.
Intendiamoci, non che i Fratelli musulmani
siano più tolleranti e democratici. Anche loro affermano di essere vittime di
Barack Obama, di Bibi Netanyahu e non di se stessi. Ma un po’ perché islamici
che in quanto tali godono di cattiva stampa, un po’ perché gli altri occupano
Tahrir, piazza-totem anche per tanta sinistra, abbiamo mitizzato dei giovani
che sanno poco della loro stessa storia e non riescono a trovare un mito più
moderno di Gamal Nasser. E’ come se l’attuale plenum del Pc cinese continuasse
a tenere Mao come sua unica bussola.
Fatico a credere che i Tamarrud siano un
movimento del tutto spontaneo e sia bastata una buona idea – la raccolta delle
petizioni – per arrivare a tutto questo. Fatico anche a pensare che ai militari
l’idea di agire sia venuta meno di una settimana fa. La storia è piena di
tamarrud che credono di essere loro a iniziare una rivoluzione pensata da altri,
e che comunque non concludono loro.